Materiali Rivoluzionari per Applicazioni Biomedicali: Un'Analisi Approfondita sui Poliesteri Biodegradabilidi Marco ArezioNegli ultimi anni, i poliesteri biodegradabili si sono affermati come una delle soluzioni più promettenti nel campo della medicina. Grazie alla loro capacità di degradarsi in maniera controllata e sicura all’interno dell’organismo, questi materiali stanno rivoluzionando settori come l’ingegneria tissutale, i sistemi di rilascio di farmaci e gli impianti chirurgici. Questo articolo si propone di approfondire i processi di sintesi, le tecniche di caratterizzazione e le principali applicazioni di questi polimeri, mettendo in luce anche le sfide e le opportunità future nel settore. Un’Introduzione ai Poliesteri Biodegradabili I poliesteri biodegradabili rappresentano una classe di polimeri sintetici e semi-sintetici capaci di degradarsi in prodotti innocui grazie a processi biologici. Queste caratteristiche li rendono particolarmente adatti per utilizzi in campo biomedicale, dove è fondamentale garantire un’eliminazione sicura dei materiali impiegati. Tra i poliesteri più studiati si annoverano l’acido polilattico (PLA), il poliglicolico (PGA), il policaprolattone (PCL) e i copolimeri derivati da queste molecole. L’interesse verso questi materiali è cresciuto notevolmente con l’evolversi della scienza dei materiali e della chimica dei polimeri. I poliesteri biodegradabili non sono solo biocompatibili, ma possono anche essere progettati per adattarsi a specifiche esigenze mediche, rendendoli una scelta versatile e innovativa. Come Nascono i Poliesteri Biodegradabili: Metodi di Sintesi La sintesi dei poliesteri biodegradabili può avvenire attraverso diverse tecniche, ciascuna con caratteristiche peculiari che le rendono adatte a specifici contesti applicativi. Tra i metodi più diffusi troviamo: - Polimerizzazione a condensazione, un processo in cui dioli e diacidi organici reagiscono per formare catene polimeriche, con la necessità di rimuovere sottoprodotti come acqua o alcoli per ottenere materiali ad alto peso molecolare. - Polimerizzazione a apertura d’anello (ROP), una tecnica largamente impiegata per poliesteri come il PLA e il PCL. Questa metodologia utilizza monomeri ciclici che, grazie all’azione di catalizzatori, si aprono e si uniscono per formare lunghe catene polimeriche. - Sintesi enzimatica, un approccio innovativo e sostenibile che utilizza enzimi, come le lipasi, per facilitare la polimerizzazione in condizioni più delicate, riducendo l’uso di catalizzatori chimici potenzialmente dannosi. Caratterizzare i Poliesteri per Comprenderne il Comportamento Per garantire l’efficacia dei poliesteri biodegradabili in campo medico, è essenziale analizzarne a fondo le proprietà. Diverse tecniche vengono impiegate per caratterizzare questi materiali: - Analisi termiche come la calorimetria a scansione differenziale (DSC) e l’analisi termogravimetrica (TGA) permettono di studiare le transizioni termiche e la stabilità dei polimeri. - Tecniche spettroscopiche, tra cui l’FTIR e l’NMR, sono fondamentali per identificare i gruppi funzionali e analizzare la struttura chimica. - Microscopia elettronica (SEM) consente di osservare la morfologia superficiale e i cambiamenti indotti dalla degradazione. - Test meccanici, infine, valutano le prestazioni del materiale in termini di resistenza e flessibilità, fattori critici per applicazioni come suture e scaffold. Applicazioni dei Poliesteri in Medicina La versatilità e la biocompatibilità dei poliesteri biodegradabili ne fanno dei candidati ideali per molteplici applicazioni biomedicali. Alcuni esempi includono: - Sistemi di rilascio di farmaci, dove poliesteri come il PLA e il PLGA vengono utilizzati per creare microsfere o matrici in grado di rilasciare farmaci in modo controllato, migliorandone l’efficacia terapeutica. - Ingegneria tissutale, con scaffold tridimensionali che favoriscono la rigenerazione di tessuti grazie a una struttura porosa e personalizzabile. - Suture e impianti biodegradabili, ampiamente impiegati in chirurgia per la loro capacità di dissolversi gradualmente senza necessità di rimozione. Le Sfide e le Opportunità Future Nonostante i progressi compiuti, il settore dei poliesteri biodegradabili deve affrontare diverse sfide. La principale riguarda il controllo preciso del tasso di degradazione, che deve essere adattato alle specifiche esigenze applicative. Inoltre, è cruciale garantire la compatibilità immunologica e sviluppare metodi di produzione sostenibili e scalabili. Le prospettive future sono comunque promettenti. Tecnologie avanzate come la stampa 3D e l’integrazione di polimeri “intelligenti”, capaci di rispondere a stimoli esterni, stanno già aprendo nuove possibilità nel campo biomedicale. Conclusioni I poliesteri biodegradabili rappresentano un pilastro per lo sviluppo di soluzioni innovative in campo medico. Grazie alle loro caratteristiche uniche e alla possibilità di personalizzazione, questi materiali offrono un vasto potenziale per migliorare la qualità delle cure e ridurre l’impatto ambientale dei dispositivi medici. Ulteriori ricerche e innovazioni saranno fondamentali per superare le sfide attuali e massimizzare i benefici di questi straordinari polimeri. Parole chiave: poliesteri biodegradabili, materiali biomedicali, PLA, ingegneria tissutale, rilascio controllato di farmaci, innovazione medica.© Riproduzione Vietata
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Innovazione e responsabilità ambientale: come Brembo ha ridotto del 70% le emissioni di CO₂ nelle sue pinze freno grazie all’uso di una lega di alluminio riciclatodi Marco ArezioQuando si parla di eccellenza italiana nel settore automobilistico, il nome Brembo emerge come sinonimo di qualità, sicurezza e innovazione. Ma oggi l’azienda lombarda compie un passo ulteriore, scegliendo di intrecciare la propria storia con un impegno concreto verso la sostenibilità. Dopo oltre cinque anni di ricerca e sviluppo, Brembo ha annunciato l’introduzione di una lega interamente composta da alluminio riciclato nella produzione delle sue pinze freno di primo equipaggiamento. Un progetto nato nel 2020 con obiettivi chiari Il percorso verso questa innovazione non è stato immediato: il progetto è stato avviato nel 2020 con l’obiettivo di conciliare due aspetti spesso ritenuti difficili da far convivere, ovvero la performance tecnica e la responsabilità ambientale. L’idea era semplice ma ambiziosa: realizzare pinze freno in grado di mantenere gli stessi standard di sicurezza e prestazioni, ma riducendo in modo significativo l’impatto ambientale. Emissioni ridotte fino al 70% La chiave del successo risiede nell’impiego di un alluminio composto al 100% da materiale riciclato, capace di garantire caratteristiche meccaniche paragonabili a quelle delle leghe tradizionali. Grazie a questa scelta, Brembo è riuscita a ridurre le emissioni di CO₂ lungo l’intero ciclo di vita del prodotto di circa il 70%. Un risultato che non rappresenta solo un primato tecnologico, ma anche una risposta concreta alla crescente necessità di ridurre l’impronta ecologica del settore automotive. Il nuovo marchio «ALU» come garanzia di sostenibilità Per contraddistinguere le pinze freno realizzate con alluminio riciclato, Brembo ha introdotto il marchio «ALU». Un simbolo che non si limita a certificare l’origine del materiale, ma che diventa anche testimonianza tangibile dell’impegno dell’azienda verso un futuro più sostenibile. Dal punto di vista estetico, le pinze mantengono intatto il design che ha reso il brand riconoscibile a livello mondiale, confermando che innovazione e tradizione possono convivere armoniosamente. Design iconico e coerenza stilistica Uno degli aspetti più apprezzati dagli automobilisti e dagli appassionati è che le pinze freno in alluminio riciclato conservano le stesse linee distintive dei modelli tradizionali. L’eleganza e la riconoscibilità del marchio restano dunque inalterate, dimostrando che la sostenibilità non implica sacrifici dal punto di vista estetico o prestazionale. Una filiera industriale orientata al futuro L’adozione dell’alluminio riciclato non è un episodio isolato, ma parte di una strategia industriale più ampia. Brembo ha infatti dichiarato di voler dare sempre più spazio a materiali riciclati e a componenti realizzati con energia rinnovabile. Questo approccio non solo riduce i costi ambientali della produzione, ma contribuisce a costruire un futuro in cui i prodotti dell’azienda saranno sempre più intelligenti, sicuri e sostenibili. Un impegno che non si ferma Nonostante l’introduzione delle nuove pinze, Brembo continuerà a utilizzare i materiali convenzionali per le linee già in produzione, garantendo una transizione graduale. Tuttavia, l’obiettivo dichiarato è chiaro: dare priorità a soluzioni basate su alluminio riciclato e, più in generale, a scelte in grado di ridurre l’impatto ambientale senza rinunciare alla qualità. L’Italia come motore dell’innovazione sostenibile Questa scelta dimostra come l’Italia possa essere protagonista di una trasformazione industriale in chiave green. L’innovazione di Brembo non riguarda solo la tecnica, ma incarna un modello virtuoso in cui la ricerca e lo sviluppo diventano strumenti concreti per affrontare le sfide ambientali globali.© Riproduzione Vietata
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Dalla cronaca di una crisi alle sfide ambientali, sociali ed economiche delle reti energetiche europeedi Marco ArezioEra il tardo pomeriggio del 28 aprile 2025 quando, senza preavviso, le città di Spagna e Portogallo si trovarono immerse in un silenzio inedito. Sembrava una notte come tante altre, ma quella volta, nel breve spazio di pochi minuti, l’elettricità venne meno a milioni di case e attività, dalle metropoli costiere fino ai borghi dell’entroterra. In una società abituata a dare per scontata la presenza costante di energia, il blackout iberico ha scosso la quotidianità di famiglie, lavoratori, ospedali, negozianti. Strade normalmente illuminate sono sprofondate nell’oscurità, i treni si sono fermati sulle linee ad alta velocità, i supermercati hanno spento frigoriferi e casse automatiche. Il fruscio della tecnologia si è interrotto, lasciando spazio a un silenzio inquietante e, per certi versi, ancestrale. Ma come si è arrivati a questa fragilità? Che storia hanno le nostre reti elettriche, e quali lezioni ci insegna davvero un evento come questo? Per capirlo, è necessario viaggiare nel tempo e nello spazio, dentro la storia delle reti energetiche europee e nel cuore dei loro snodi tecnici e umani. Dal Filo di Edison alla Maglia d’Europa: Breve Storia delle Reti Elettriche L’energia elettrica ha cambiato il volto dell’Europa molto prima che qualcuno pensasse a concetti come smart grid, decarbonizzazione o blackout continentali. Alla fine dell’Ottocento, con le prime centrali di Edison e Tesla, la rete era poco più di un groviglio locale, pensato per illuminare strade e alimentare le prime industrie. Ogni città – o addirittura ogni quartiere – aveva la sua piccola “isola energetica”. Con la crescita della domanda e lo sviluppo industriale del Novecento, la necessità di interconnettere zone sempre più ampie portò alla nascita delle reti nazionali: tralicci che correvano tra le campagne, sottostazioni, impianti idroelettrici nelle valli alpine, centrali termiche vicino ai grandi centri urbani. Negli anni ‘60 e ‘70, sotto la spinta della crescita economica e della paura di crisi energetiche globali, l’Europa iniziò a pensare la sua energia in termini di cooperazione e interconnessione. Nasce così la cosiddetta “maglia” elettrica europea, una fitta rete di collegamenti tra Paesi, che oggi si estende dalla Scandinavia al Mediterraneo, dalle isole britanniche alla Turchia. La rete europea moderna non è solo un’infrastruttura tecnica, ma un sistema sociale e politico. Rappresenta la volontà di garantire continuità, sicurezza e abbondanza energetica ai cittadini e alle imprese, riducendo i rischi di isolamento o carenza. Come Funziona la Rete Elettrica Europea: Un’Armonia Delicata La rete elettrica europea, nota come ENTSO-E (European Network of Transmission System Operators for Electricity), è oggi una delle più complesse al mondo. Si tratta di un enorme sistema interconnesso, dove decine di operatori nazionali e regionali (come REE in Spagna, REN in Portogallo, Terna in Italia, RTE in Francia) collaborano per gestire in tempo reale produzione, domanda e flussi di energia tra migliaia di centrali, milioni di utenti e centinaia di linee ad alta tensione. Tre sono i pilastri della sua struttura: - Produzione (da fonti fossili, nucleari, idroelettriche, rinnovabili): La generazione è sempre più distribuita, grazie all’espansione delle rinnovabili. - Trasmissione: La corrente viaggia attraverso una rete a lunga distanza, ad altissima tensione, che collega produttori e grandi consumatori, spesso attraversando confini nazionali. - Distribuzione: Arrivata vicino ai luoghi di consumo, l’energia viene “abbassata” di tensione e distribuita fino a case, negozi e industrie. La rete europea non è un circuito chiuso, ma una vera e propria “piazza” dove l’elettricità viaggia in tempo reale, da dove è prodotta a dove serve, spesso varcando le frontiere in base a necessità e prezzi. Un sistema di questo tipo garantisce flessibilità e sicurezza, ma lo rende anche vulnerabile: un guasto in un punto strategico può propagarsi a catena, soprattutto se si somma a condizioni meteo estreme, picchi di domanda o errori umani e informatici. La Tempesta Perfetta: Cause e Dinamiche del Blackout Iberico Nel caso del blackout iberico del 2025, la “tempesta perfetta” si è creata così: Una linea di trasmissione fondamentale, situata nella regione di Extremadura, è andata fuori servizio per un guasto tecnico non previsto. Il sistema di bilanciamento – già messo alla prova da una giornata insolitamente calda e dal massiccio utilizzo di condizionatori – ha cercato di reagire rapidamente, ma un secondo evento anomalo, un improvviso calo della produzione eolica nella regione settentrionale, ha provocato un vuoto di energia insostenibile. I sistemi di protezione, invece di localizzare il problema, hanno attivato una serie di disconnessioni a catena (il cosiddetto “cascading failure”), isolando progressivamente intere aree di Spagna e Portogallo. Per alcune ore, la Penisola Iberica è stata energeticamente “isolata” dal resto d’Europa, incapace di importare abbastanza energia dalle reti vicine. Le interconnessioni esistenti (come i cavi Pirenei-Francia) non erano sufficienti a colmare il deficit, sia per limiti tecnici che per la necessità di proteggere le reti dei Paesi confinanti da ulteriori squilibri. Dietro i Numeri: Le Conseguenze Concrete su Ambiente, Società ed Economia Immaginate la scena: Ospedali passano dai sistemi automatizzati all’alimentazione di emergenza. Centri di dati bancari e reti di comunicazione rallentano o vanno offline, causando ritardi nelle transazioni e incertezza sui mercati finanziari. Supermercati e industrie alimentari rischiano la perdita di tonnellate di derrate deperibili. Le famiglie, specie quelle più vulnerabili, si trovano senza aria condizionata, riscaldamento, o la possibilità di cucinare e comunicare. Dal punto di vista ambientale, la perdita improvvisa di equilibrio nella rete, unita alla successiva “ripartenza” massiccia delle centrali, può comportare picchi di emissioni inquinanti. Inoltre, un blackout mette a nudo la fragilità della transizione ecologica: le fonti rinnovabili, prive di accumulo e flessibilità, non riescono sempre a garantire sicurezza nei momenti critici, e spesso sono proprio le centrali a carbone e gas a essere chiamate per prime al riavvio. Sul piano sociale, l’evento ha ricordato quanto la modernità sia fragile: una generazione che non ha mai vissuto la scarsità energetica si è riscoperta vulnerabile, ansiosa e costretta a rinegoziare il rapporto con la propria comunità e con l’ambiente. Dal punto di vista economico, il blackout ha causato danni tangibili: interi turni di produzione andati persi, servizi pubblici sospesi, aziende costrette a smaltire prodotti deperibili, città paralizzate nei trasporti e nel turismo. Una Rete in Evoluzione: Lezioni dal Passato, Scelte per il Futuro La storia della rete elettrica europea è una storia di progresso, ma anche di crisi e di adattamento. Ogni blackout importante – da quello italiano del 2003, a quello europeo del 2006, fino a quello iberico del 2025 – ha rappresentato uno spartiacque, spingendo verso nuovi standard di sicurezza, investimenti in interconnessioni, e maggiore attenzione alla resilienza. Oggi, con la crescita delle rinnovabili, la digitalizzazione e l’apertura ai mercati energetici europei, la rete si trova davanti a nuove sfide e opportunità: - Flessibilità e accumulo: L’integrazione di sistemi di storage, come batterie avanzate e idrogeno, è essenziale per assorbire le fluttuazioni eoliche e solari. - Reti intelligenti (smart grid): Sensori, automazione e intelligenza artificiale per prevenire e gestire i guasti in tempo reale. - Comunità energetiche locali: La decentralizzazione e la produzione diffusa aiutano a ridurre il rischio di grandi blackout e favoriscono la partecipazione attiva dei cittadini. - Collaborazione europea: La sicurezza energetica non è più una questione nazionale: solo la cooperazione e la condivisione delle risorse possono garantire stabilità a lungo termine. Un Nuovo Rapporto con l’Energia: Consapevolezza, Prevenzione, Resilienza Il blackout del 2025 resterà nella memoria collettiva non solo per i disagi vissuti, ma per la spinta a ripensare il nostro rapporto con l’energia. Serve una cultura diffusa della prevenzione e della responsabilità condivisa: cittadini, aziende e istituzioni devono essere coinvolti in piani di emergenza, nella promozione di consumi sostenibili e nella richiesta di reti più sicure e innovative. L’esperienza della Penisola Iberica ci dice che il futuro della rete non è scritto: dipende dalle scelte che facciamo oggi in materia di sostenibilità, innovazione e solidarietà.© Riproduzione Vietata
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Riutilizzare lo scarto del pulper per creare polimeri adatti allo stampaggiodi Marco ArezioLe cartiere utilizzano un processo meccanico per riciclare la carta da recupero che entra nei loro stabilimenti. Il processo industriale parte dalla macerazione in vasca del cartone e della carta di uso quotidiano, attraverso l’acqua e un movimento rotatorio di apparecchiature che hanno lo scopo di separare le fibre di cellulosa dai materiali non utilizzabili. Da questo processo, semplificando, si forma lo scarto del pulper. Questi materiali sono composti, prevalentemente, da alluminio e polietilene che si trovano all’interno degli imballi alimentari, come il Tetrapak o altri imballi similari, che non possono essere impiegati nel processo di produzione delle cartiere. I numeri che compongono lo scarto del pulper sono davvero impressionanti in quanto si considera che circa il 10%, in peso, della carta prodotta, generi questo tipo di rifiuto, con costi di smaltimento a carico delle cartiere molto onerosi. Oggi ci sono delle tecnologie che permettono di riutilizzare lo scarto del pulper delle cartiere recuperando il polimero in LDPE che si trova all’interno, attraverso il processo di separazione, triturazione, lavaggio e granulazione dello scarto del pulper. I problemi che si incontrano per riciclare questo composto, PE+Alluminio sono però importanti, sia a livello produttivo che di qualità finale del prodotto: 1. Lo scarto del pulper presenta una percentuale di umidità elevata, superiore al 10%, che deve essere abbattuta in modo sostanziale per evitare problemi di granulazione e di perdita di produzione. 2. L’umidità residua all’interno del granulo può creare, in fase di stampaggio, problemi di gas, con conseguenti riduzioni della resistenza del manufatto e difetti estetici sulle superfici. 3. La presenza residuale di carta all’interno del composto da lavorare, comporta un lavoro aggiuntivo nelle fasi di filtraggio della granulazione. Infatti la micro-presenze di carta nella produzione del granulo finale porterebbe alla creazione di micro-pori dannosi al granulo finale. 4. La presenza di alluminio, anche sotto forma di elemento flessibile, quindi non ostacolante in fase di stampaggio, comporta un effetto estetico che deve essere tollerato in quanto le superfici colorate non saranno omogenee. Non c’è dubbio che tutti questi problemi possono essere gestiti sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista dell’effetto ottico del prodotto finale, che deve essere accettato come una caratteristica peculiare del prodotto stesso. Il granulo che ne deriva è solitamente un LDPE con fluidità intorno a 1 a 2,16 Kg. /190° con una percentuale di LD oltre il 90% e residui di alluminio ed eventualmente di carta. Per quanto riguarda l’impego del granulo derivante dallo scarto del pulper, fermo restando la soluzione dei punti precedenti, è indicato per lo stampaggio di prodotti non estetici ma dove sono richieste qualità del polimero in termini di flessibilità e uniformità di composizione. Possiamo citare i bancali in plastica, vasi e mastelli, accessori per l’edilizia, grigliati non carrabili, ecc.. Il prodotto si adatta alla creazione di compound con PP, PO e HD a seconda degli impieghi che il cliente ne deve fare creando così un composto molto flessibile dal punto di vista delle ricette polimeriche. Ovviamente, visto che normalmente ha un DSC regolare, si presta facilmente all’aggiunta di cariche minerali, specialmente CACO3, che aiutano la ricetta a dare minore flessibilità, insita nell’LDPE, se il cliente ne facesse richiesta.Categoria: notizie - tecnica - carta - riciclo
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L’enigma della casa abbandonata di Foppolodi Marco ArezioRacconti. L’enigma della casa abbandonata di Foppolo. Sussurri nella neve. Capitolo n° 2 Le prime luci dell’alba trovarono Marco Anselmi ancora sveglio, nella stanza 204 dell’Albergo Bernardi a Foppolo. Aveva trascorso una notte agitata, tormentato dal ricordo di quella casa sinistra e, soprattutto, da ciò che la sua fotocamera aveva immortalato. Per quanto cercasse di convincersi che si trattasse di un’illusione ottica, di un semplice gioco di luci e ombre, non poteva ignorare la sensazione che qualcosa, o qualcuno, lo avesse davvero osservato dal piano superiore. La luce lattiginosa del mattino, fioca e intrisa di riflessi azzurrognoli, penetrava con fatica attraverso la finestra velata di brina. Lo scricchiolio dei tubi del riscaldamento si mescolava al lamento lieve del vento, dando all’intero albergo un’aria di sospensione. Marco si preparò in silenzio, infilando i pochi abiti che aveva portato con sé. Decise di dare un’occhiata alla fotografia sullo schermo della fotocamera un’ultima volta, quasi sperando di scoprire un dettaglio che potesse rassicurarlo. Ma la sagoma c’era ancora: confusa, scura, in cima alle scale. Non poteva negare l’evidenza. Con un brivido, staccò lo sguardo e nascose la fotocamera nella tasca interna del giaccone. All’uscita dall’albergo, la neve candida avvolgeva ogni cosa, come un manto silenzioso che tentava invano di ricoprire i segreti e le paure del piccolo paese. Marco respirò a pieni polmoni, nonostante l’aria pungente sembrasse tagliargli la gola. Era deciso a tornare al Cervo Nero prima che fosse pienamente giorno, sperando di trovare Gianni libero da occhi indiscreti, per scambiare con lui qualche parola in più sulla casa abbandonata e su quell’apparizione. Percorse la via principale di Foppolo, priva di turisti a quell’ora, con i lampioni ancora accesi e la loro luce arancione che si rifletteva sulla distesa di ghiaccio e neve. Il paese dava l’idea di un luogo che dormisse con un occhio solo, sempre in allerta a causa di qualche minaccia invisibile. Le insegne del Cervo Nero erano spente, ma la porta era aperta. All’interno, Gianni stava sistemando sedie e tavoli, impilandoli per pulire il pavimento in legno. L’uomo alzò lo sguardo non appena sentì il cigolio della porta. “Già in piedi?” domandò, con un misto di sorpresa e preoccupazione. “Hai un’aria stanca, ragazzo.” Marco annuì, passando la mano sul viso ancora segnato dall’insonnia. “Notte difficile,” ammise. Gianni gettò uno straccio nel secchio dell’acqua torbida. “Per via di quella foto, immagino.” Il giornalista non replicò, ma la sua espressione confermò tutto. Era ancora sconvolto, e soprattutto desideroso di capire se qualcuno, in quel paese, sapesse qualcosa di più concreto. Si avvicinò al bancone dove Gianni aveva apparecchiato soltanto un caffè per sé, in una tazzina sbeccata dal tempo. L’atmosfera era diversa rispetto alla sera precedente. Nessun avventore, nessun borbottio di fondo, nessun vociare che si spegnesse al nominar dei Ravelli. Stavolta c’erano soltanto loro due, e la possibilità di parlare senza paura di orecchie curiose. “Ho pensato a quello che mi hai detto,” esordì Marco, con un filo di voce. “Su Marina Ravelli. Sul fatto che lei possa sapere qualcosa.” Gianni annuì, facendo scorrere lo sguardo sulla finestra del bar, come se si aspettasse che qualcuno potesse apparire all’improvviso. “Non è facile da trovare. Non si fa vedere spesso da queste parti, ma so che mantiene un contatto con il notaio del paese. Qualcuno dice che passi qui in incognito, forse un paio di volte l’anno. Nessuno sa esattamente dove viva adesso.” Marco sentì il solito fremito di curiosità e determinazione, quello che lo aveva già spinto tante volte a cacciarsi in situazioni rischiose. “Devo parlare con lei, in un modo o nell’altro.” Gianni sospirò. Non sembrava entusiasta. “Farò una telefonata al notaio. Siamo vecchi conoscenti. Magari può darti un recapito, o almeno un indizio. Ma… stai attento. Questa storia è più grande di te, più grande di tutti noi.” Il giornalista si irrigidì. “Credi che Marina mi darà retta?” “Onestamente, non lo so. Ma se c’è qualcuno che possiede una chiave per aprire quella porta, è lei. E tu… hai davvero intenzione di metterci piede?” In risposta, Marco estrasse dalla tasca l’orologio da taschino trovato nella casa. Lo posò delicatamente sul bancone. “Questa è la prova che i Ravelli non se ne sono andati di loro volontà. Alberto non avrebbe mai abbandonato un oggetto simile. È inciso con le sue iniziali e l’anno 1978… dev’essere un ricordo di famiglia. Ecco perché ho bisogno di incontrare Marina.” Gianni lo fissò a lungo. Poi prese l’orologio in mano, come se fosse un oggetto maledetto o prezioso allo stesso tempo. “Non l’avevo mai visto,” disse. “Ma la voce che fossero scomparsi in circostanze strane… beh, ormai è più di un sospetto.” Nell’aria rimase un silenzio carico di aspettative e timori, finché il suono del campanello della porta non li fece trasalire entrambi. Apparve un uomo alto, con un giaccone mimetico, il volto segnato da una folta barba grigia e un berretto calcato in testa. Marco riconobbe nei suoi occhi l’atteggiamento cauto di chi vive in montagna da troppo tempo per fidarsi subito di uno sconosciuto. “Scusate se disturbo,” disse l’uomo, lasciando che una scia di aria fredda lo seguisse all’interno. “Gianni, avresti per caso un pacco di caffè da vendermi? È finito quello a casa.” Il barista annuì, passando dietro il bancone per recuperare una confezione. “Eccolo, Dario. Tutto bene?” Dario sfilò qualche banconota dalla tasca, poi rivolse uno sguardo curioso a Marco. “Ho saputo che ieri sera c’era un forestiero in giro… Sei tu il giornalista?” Marco cercò di sorridere, ma percepiva una certa tensione. “Sì, sono io. Mi chiamo Marco Anselmi.” Dario annuì, soppesandolo dall’alto in basso. “La gente chiacchiera, sai. Dice che sei arrivato qui per ficcare il naso in una storia che molti preferiscono dimenticare.” Il tono non era di minaccia, ma la frase trasudava un avvertimento non troppo velato. Marco si limitò a rispondere con fermezza: “Ho letto di una famiglia scomparsa anni fa. Cerco solo la verità.” Dario sospirò, poi si infilò la confezione di caffè sotto il braccio. “La verità… in certi posti, può essere più pericolosa di una bugia. Io ti consiglio di pensare bene a quello che fai.” Il giornalista fece un lieve cenno di intesa. “Capisco il tuo punto di vista, ma… è il mio lavoro.” “Nessuno ti obbliga a metterti in pericolo,” ribatté Dario, lanciandogli un’occhiata che sapeva di compassione. Poi, con un gesto brusco, infilò le banconote in mano a Gianni e uscì dal locale. Il silenzio tornò a regnare, finché il barista non si rivolse di nuovo a Marco: “Hai sentito? Questa è la reazione tipica di chi vorrebbe solo lasciar correre gli anni, sperando che il tempo cancelli tutto. Ma tu non mollerai, vero?” Il giornalista scosse il capo. “Ho visto troppe cose strane per tirarmi indietro.” Fu allora che Gianni mise mano al cellulare. “Vedrò di contattare il notaio. Forse riesco a convincerlo a farti avere un numero di telefono, qualcosa. Nel frattempo, ti consiglio di far visita alla signora Faustina. È la più anziana del paese e all’epoca conosceva bene i Ravelli. Magari lei può raccontarti qualche dettaglio in più.” Marco annuì, cercando di nascondere l’eccitazione che provava. “Dove posso trovarla?” “Abita in una casa di legno in fondo alla via principale. È una costruzione antica, con un vecchio pozzo di pietra in cortile. Non puoi sbagliare.” Mezz’ora dopo, Marco si incamminò lungo la strada indicata da Gianni. Le raffiche di vento facevano turbinare la neve, creando piccoli vortici che danzavano intorno ai suoi stivali. In lontananza, le montagne si stagliavano contro il cielo grigio, minacciose e silenziose come antichi giganti addormentati. Il Valgussera, il Montebello, il Vescovo e il Toro troneggiavano sul paese a memoria del loro potere sul paese e sugli abitanti. La casa di Faustina era proprio come l’aveva descritta il barista: un edificio in legno, con mura scurite dal tempo e un tetto a spiovente che sembrava volersi riparare dal vento a ogni costo. Nel cortile, un vecchio pozzo di pietra era quasi interamente circondato dalla neve, come un testimone scomodo di chissà quali epoche. Marco bussò alla porta, notando un’ampia finestra leggermente appannata. Attese qualche secondo, finché uno scalpiccio di pantofole sul pavimento di legno non annunciò l’arrivo di qualcuno. La porta si aprì su una donna dalla pelle rugosa, i capelli bianchissimi raccolti in un fazzoletto scuro. I suoi occhi, chiari e acquosi, rivelavano un’età avanzata ma anche un’incredibile lucidità. “Chi siete?” chiese con voce ferma, pur se segnata dall’anzianità. “Mi chiamo Marco. Marco Anselmi. Sono un giornalista e… Gianni del Cervo Nero mi ha detto che potrebbe aiutarmi.” Faustina strinse gli occhi, come a voler mettere a fuoco meglio la figura di quell’uomo avvolto in un giaccone troppo leggero per il freddo di Foppolo. “È in merito ai Ravelli, immagino.” La risposta diretta colse Marco di sorpresa. “Sì. Vorrei avere un vostro parere, sapere cosa ricordate.” Lei lo fece entrare, con un’espressione che non lasciava trapelare né paura né curiosità. Sembrava piuttosto un miscuglio di rassegnazione e amarezza. All’interno, la casa era modesta ma curata: un piccolo soggiorno con un camino acceso, un tappeto consunto e fotografie in cornici di legno appese alle pareti. L’odore di erbe aromatiche mescolato a quello della cera d’api dava un senso di calore domestico. Si sedette su una sedia traballante, facendo cenno a Marco di accomodarsi su una poltrona coperta da un telo ricamato a fiori. Per un attimo, i due rimasero in silenzio, come se ognuno studiasse l’altro. Faustina parlò per prima: “Cosa vuoi sapere che non sia già stato detto? Quella storia è morta e sepolta sotto la neve da trent’anni.” Marco si inclinò in avanti. “Nient’affatto. Non è morta, se ancora oggi suscita reazioni così forti. Ho visto la casa, ci sono entrato e ho trovato qualcosa che indica che i Ravelli non se ne sono andati volontariamente.” Un lampo di preoccupazione attraversò il volto di Faustina. “Sei stato in quella casa?” “Sì. E non è stato piacevole.” L’anziana sospirò, guardando il camino. Le fiamme danzanti sembravano riflettersi nei suoi occhi come se volessero risvegliare vecchi ricordi. “Te lo dico subito, figliolo. Qualunque cosa ti abbiano raccontato, la verità è peggio. Io ero qui, in questo paese, quando i Ravelli sono spariti. Ci ho parlato io stessa, poche ore prima che tutto accadesse.” Marco sentì il cuore accelerare. “Con Alberto o con Silvia?” “Con entrambi, in realtà. Li avevo incontrati nel negozio di alimentari, quello ormai chiuso da anni. Erano arrivati da poco, si guardavano intorno come due turisti qualsiasi. Ma s’intuiva che volevano fermarsi a lungo: non stavano visitando, stavano organizzando. Parlavano di come avrebbero ristrutturato la casa, dell’arredamento, delle nuove finestre, di rendere abitabile perfino la mansarda. Il piccolo Luca saltellava tra gli scaffali, toccando tutto con la curiosità tipica di un bambino.” La voce di Faustina si abbassò leggermente. “Alberto sembrava felice, ma avevo notato una certa inquietudine negli occhi di Silvia. Come se… beh, come se la casa le facesse paura già allora. Ricordo che chiesi: ‘Vi fermerete a lungo?’ e lei rispose in fretta, troppo in fretta: ‘Il tempo necessario a farci sentire a casa.’ Poi, con un sorriso forzato, aggiunse qualcosa che mi parve strano: ‘Qui è tutto così tranquillo… troppo tranquillo.’” Faustina si fermò, persa in un pensiero. Marco non resistette e incalzò: “Poi cos’è successo?” “Loro salirono alla casa, mentre io tornai qui. Era la solita routine, nulla di speciale. La sera stessa, però, giunse la notizia che nessuno di loro era stato visto in paese. La mattina dopo, ci fu quel trambusto: la polizia, le ricerche, i giornalisti. Ma non c’era già più nulla da fare.” “Avete mai sentito urlare, quella notte?” la interruppe Marco, ricordando le parole di Gianni. Faustina esitò. “Urlare no. Ma ho sentito un rombo, un suono cupo, come un tonfo in lontananza. Pensai fosse una slavina sul versante opposto della montagna, come ne capitano tante d’inverno. Invece, pare che nessuno confermò una valanga, quella sera.” Nel silenzio che seguì, il giornalista sentiva il crepitio del fuoco e il lieve sibilar del vento fuori dalla casa. Poi l’anziana riprese, con voce tremante: “Il vecchio Tomaso, lui sì che ha sentito e visto. Ma nessuno gli credette. Io gli credetti, invece. Lo conoscevo bene: era un tipo solitario ma onesto. Prima che morisse, venne qui, a confessare di aver… come dire, di aver percepito la presenza di qualcosa di maligno.” “Maligno?” Faustina abbassò lo sguardo, quasi vergognandosi delle proprie parole. “Non so come altro descriverlo. Diceva che nel bosco, quella notte, c’erano ombre che si muovevano in modo innaturale. Tomaso era un uomo di mondo, aveva combattuto in guerra da giovane, ne aveva viste tante. Ma non aveva mai avuto paura di nulla. Eppure, quella sera tremava come una foglia.” “Vi disse niente di più concreto?” “Disse di aver visto una figura in piedi davanti alla porta dei Ravelli, immobile come una statua. Non riusciva a distinguerne il volto. Era come se fosse in parte confuso, sfocato, ma del tutto reale. Sentì un urlo agghiacciante, e poi un silenzio innaturale. Quando si fece coraggio, il mattino dopo, raggiunse la casa e la trovò vuota, senza orme nella neve. Lui, di orme, ne avrebbe dovute vedere a decine, se la famiglia fosse uscita o se qualcuno fosse entrato.” Marco si passò una mano sulla fronte sudata, nonostante il freddo. Ogni racconto confermava le stesse, inquietanti anomalie. Faustina continuò: “Da allora, la casa è rimasta lì, muta. Ogni tanto qualcuno dice di aver visto delle luci, di notte. Altri raccontano di ombre, proprio come Tomaso. Pochi osano avvicinarsi. Foppolo non ha dimenticato, anche se finge di farlo.” La mano di Marco scivolò verso la tasca interna, dove teneva l’orologio e la fotografia stampata la sera prima. Decise di non mostrarla a Faustina, per non turbarla oltre. “Una volta che i Ravelli sparirono, non ci fu alcun segnale di loro? Nessuna lettera, niente?” L’anziana scosse il capo. “Niente. Svaniti, come il fumo che esce dal camino.” Il giornalista sospirò, realizzando quanto fosse ancora lontano dal risolvere l’enigma. “Gianni mi ha parlato di Marina, la sorella di Alberto.” Faustina alzò gli occhi, lanciandogli uno sguardo penetrante. “Marina Ravelli… Sì, la ricordo. Una donna dal carattere forte. Non era presente a Foppolo quando successe il fatto e quando tornò, trovò ad attenderla solo le macerie di una tragedia. Non volle mai parlare con nessuno, liquidò la polizia con poche parole. Poi se ne andò, e di lei si persero le tracce.” “Però non ha mai venduto la casa, giusto?” “No. Forse perché non voleva arrendersi all’idea che suo fratello e la sua famiglia fossero… morti. O forse perché temeva che quel luogo nascondesse ancora qualcosa di vivo. Qualcosa che un estraneo non avrebbe dovuto scoprire. Non posso saperlo. Ma in tanti ci siamo fatti la stessa domanda: perché tenere un rudere infestato da brutti ricordi?” Marco abbassò gli occhi, cercando di immaginare le ragioni di Marina. “Crede che possa sapere la verità?” Faustina socchiuse le palpebre, come se misurasse le parole. “Se c’è una verità sepolta, lei la conosce. Ma dubito che la voglia condividere.” Quando Marco lasciò la casa di Faustina, il cielo si era schiarito leggermente, ma il vento era aumentato d’intensità. Camminava affondando gli scarponi in cumuli di neve fresca, con la sensazione di essere osservato. Più volte si voltò, aspettandosi di scorgere una figura nera dietro di sé, tra i vicoli deserti, ma non notò nulla di anomalo. Eppure, quel senso di disagio non lo abbandonava. Forse era solo suggestione, dopo la nottata trascorsa in quella casa maledetta. Oppure no. In fondo, c’erano storie che parlavano di ombre silenziose che si aggiravano nei boschi. Varcò la soglia dell’albergo con la volontà di fare subito una doccia calda, ma nella hall lo stava aspettando una sorpresa: sul bancone della reception, l’albergatore gli aveva lasciato un messaggio. “Signor Anselmi, ho appena parlato con Gianni del Cervo Nero. Mi ha chiesto di riferirle che, alle quattro del pomeriggio, il notaio la aspetta nel suo studio.” Nient’altro. Né un saluto né un’introduzione. Un biglietto essenziale, scritto di fretta, che tuttavia a Marco bastava. Era evidente che Gianni si era mosso in fretta: in paese, certe conoscenze personali valevano più di qualsiasi telefonata ufficiale. Lo studio notarile si trovava in una costruzione bassa, in pietra, con l’insegna sbiadita dal tempo. Sembrava un luogo poco frequentato, eppure all’interno l’arredamento era sorprendentemente moderno. Sedie in pelle, una scrivania lucida, scaffali pieni di volumi e raccoglitori; un contrasto netto con il panorama montano all’esterno. Il notaio era un uomo di mezz’età, con occhiali dalla montatura sottile e capelli corti e brizzolati. Accolse Marco con un cortese sorriso professionale, invitandolo a sedersi. “Lei è il signor Anselmi, immagino. Il nostro Gianni mi ha accennato qualcosa. Ero un po’ scettico, ma alla fine ho deciso di riceverla.” Marco appoggiò il giaccone sullo schienale della sedia, cercando di non mostrare troppa impazienza. “La ringrazio per il suo tempo. Immagino sappia il motivo per cui sono qui.” Il notaio si schiarì la gola. “La famiglia Ravelli. Non capitano tutti i giorni giornalisti in cerca di informazioni su questa faccenda. È un caso vecchio di decenni, su cui s’era quasi posata la polvere dell’oblio.” “Quasi,” sottolineò Marco. “Purtroppo, ci sono ancora molte domande senza risposta. Sto cercando di capire se Marina Ravelli è disposta a parlare con me.” L’uomo si tolse gli occhiali, strofinandoli con un panno. “Non è detto che lei voglia. Ma posso darle un numero di telefono. È quello che possiedo per contattarla in caso di comunicazioni importanti. Non so se è ancora attivo. Non so neppure se risponderà.” Estrasse un taccuino dalla scrivania e, con una penna stilografica, scrisse un numero. Lo porse a Marco. “Questo è tutto ciò che posso fare. Mi prendo una certa responsabilità, lo ammetto. Ma Gianni mi ha garantito che lei è una persona seria. Spero, in cuor mio, che sappia come muoversi.” Marco strinse il bigliettino, provando un immediato senso di sollievo, mescolato all’ansia di ciò che avrebbe potuto scoprire. “Grazie. Ha qualche consiglio su come approcciarla?” Il notaio sorrise appena, senza allegria. “Non la conosce più nessuno, veramente. Non so che persona sia diventata. Negli anni, ho spedito qualche raccomandata, ma la corrispondenza è stata sempre ritirata con puntualità, senza una sola riga di risposta. Mi aspetto che sia una donna riservata o addirittura diffidente. Se le parlerà, le servirà molta pazienza.” Marco annuì, riponendo il numero nel portafoglio come fosse un gioiello prezioso. Si alzò, ringraziò ancora, e uscì dallo studio con un misto di eccitazione e timore. Ritornato nella sua camera d’albergo, si chiuse dentro come a voler creare uno spazio sicuro. Era la metà del pomeriggio; la luce all’esterno iniziava già a virare verso il grigio scuro, preludendo a un tramonto precoce. Il vento si era calmato, lasciando il posto a un silenzio quasi innaturale. Con le mani leggermente sudate, Marco estrasse il telefono e compose il numero ricevuto dal notaio. Al primo squillo, sentì il cuore rimbombare nelle orecchie. Al quinto squillo, un leggero clic fece presagire l’attivazione della segreteria telefonica. Stava già per interrompere la chiamata, quando udì una voce femminile: “Pronto?” Trattenne il respiro. “Buonasera, parlo con la signora Ravelli?” Nessuna risposta immediata. Solo un fruscio, come se la comunicazione fosse disturbata. Alla fine, la voce tornò, fredda, quasi contratta: “Chi è?” “Sono Marco Anselmi, giornalista freelance. Ho avuto il suo numero dal notaio di Foppolo.” Il silenzio si fece lungo, carico di tensione. Poi, con un tono che rivelava un moto di fastidio: “Il notaio non avrebbe dovuto. Non parlo con giornalisti. Addio.” Marco temette che la conversazione finisse lì, e si affrettò a dire: “La prego, non riagganci! So che ha tutti i motivi di non fidarsi, ma la mia intenzione è capire cosa sia successo a suo fratello Alberto e alla sua famiglia. Credo di aver trovato un indizio importante…” Un secondo di esitazione. “Un indizio? Che genere di indizio?” Senza scendere in dettagli sul luogo del ritrovamento, Marco rispose: “Un oggetto appartenuto a suo fratello. Vorrei mostrarle una foto. Se potessi anche parlarle di persona, sarebbe meglio.” Seguì un’altra pausa colma di dubbi. “Dove si trova adesso?” “A Foppolo, da un paio di giorni. E… la prego di credermi, non ho cattive intenzioni. Voglio solo far luce su un mistero che mi affascina, e restituire un po’ di dignità a chi è sparito senza un perché.” Il respiro di Marina Ravelli si fece udire in maniera lieve, quasi impercettibile, ma rivelava emozioni contrastanti: dolore, paura, forse un briciolo di curiosità. “Non posso venire a Foppolo in questo momento. Ma… potrei chiamarti io, più tardi.” Marco colse il cambio di pronome – dal lei al tu – come un piccolo segno di distensione. “Mi staresti facendo un grande favore. Attendo la tua chiamata. Spero davvero tu decida di incontrarmi.” Click. La linea morì, lasciandolo con un misto di ansia e speranza. Almeno, non lo aveva liquidato subito. Forse, in lei, c’era ancora la voglia di capire che fine avesse fatto la sua famiglia, o quantomeno di affrontare quei ricordi per troppo tempo sepolti. Erano ormai le sette di sera quando Marco, nell’attesa di una telefonata che non sapeva se sarebbe arrivata, decise di tornare al Cervo Nero per mangiare qualcosa e scaldarsi con un bicchiere di vino. All’interno, l’atmosfera era più vivace rispetto al mattino. Alcuni abitanti del paese erano seduti ai tavoli robusti, chi con una birra, chi con un bicchiere di grappa a raccontarsi aneddoti e fatiche quotidiane. Appena entrò, fu colto da un coro di sguardi. La sua presenza, ormai, non era più un mistero. L’estraneo che si interessava ai Ravelli suscitava inquietudine e curiosità al tempo stesso. Gianni, dal bancone, lo salutò con un cenno del capo e gli fece spazio su uno sgabello. “Novità?” chiese il barista, porgendogli un menù consumato. Marco si limitò a un’occhiata rapida. “Il notaio mi ha dato il contatto di Marina. L’ho chiamata. Sembra che voglia pensarci prima di incontrarmi.” Gianni annuì. “Meglio di niente, no?” Il giornalista aprì il menù, senza leggere sul serio. “Sì. Pensi davvero che accetterà di vedermi?” Il barista si fece pensieroso. “Non saprei. Marina è sempre stata un enigma per tutti. Ma se hai trovato davvero qualcosa di concreto, forse potrebbe convincersi. O forse, al contrario, spaventarsi di più.” In quel momento, una donna sulla cinquantina, dai capelli rossi e un cappotto logoro, si avvicinò a loro. Aveva un’aria tribolata ma decisa, come se stesse combattendo con se stessa per parlare. “Scusami,” disse a Marco, in un tono di voce che catturò subito l’attenzione. “Tu sei il giornalista, vero?” “Sì, sono io.” La donna si guardò intorno, controllando che nessuno fosse troppo vicino da origliare. Poi abbassò la voce: “Posso offrirti da bere? Vorrei raccontarti una cosa.” Gianni intervenne: “Maria, non vorrai…?” Lei lo zittì con un gesto della mano, cortese ma deciso. “Ho taciuto troppo a lungo. Se questo giornalista vuole sapere, glielo dirò io. Anche se… forse non servirà a nulla.” Marco si fece da parte, cedendo alla donna il suo sgabello e ordinando un bicchiere di vino rosso. Maria, così si chiamava, lo ringraziò con un accenno di sorriso nervoso. “Mio padre lavorava come guardiacaccia, anni fa,” iniziò lei, scrutando il fondo del bicchiere quasi sperasse di trovarci coraggio. “Era in servizio in quelle notti, nella zona a ridosso del bosco che confina con la proprietà dei Ravelli. Mi raccontò che, la sera prima della scomparsa, notò delle impronte di lupo nei dintorni.” Marco la guardò, interdetto. “Quindi…?” Maria sospirò. “Il fatto è che a Foppolo, in quegli anni, di lupi non se ne vedevano più. Erano quasi estinti. Eppure, quelle erano impronte fresche e profonde, come se fossero state lasciate da un branco piuttosto grosso. Papà si insospettì. Disse di aver provato a seguirle, ma di colpo sparivano, come se quei lupi si fossero sollevati in aria o fossero diventati invisibili.” Il giornalista sentì un fremito di perplessità. “È una storia assurda. Forse si era sbagliato.” Maria inarcò un sopracciglio. “Papà era un guardiacaccia esperto. Non si sarebbe confuso con un cane, né con altri animali. Disse anche di aver trovato grossi ciuffi di pelo scuro attaccati ad alcuni arbusti. Come se quelle bestie fossero passate lì a frotte, urtando contro i rami.” “E cosa c’entra con la scomparsa dei Ravelli?” La donna bevve un sorso di vino. “Non lo so. Forse niente, forse tutto. Quando scoprì che i Ravelli erano spariti, papà ne parlò con qualcuno, ma non lo presero sul serio. Anche lui, a un certo punto, preferì lasciar perdere. Ma io ricordo bene la sua agitazione. Sembrava convinto che qualcosa di strano si aggirasse in quei boschi.” Gianni cercò di intervenire, per calmare la situazione. “Maria, stai dicendo che credi a una pista… soprannaturale? Quei lupi sarebbero… che cosa, esattamente?” Lei distolse lo sguardo, imbarazzata. “Io non credo a nulla. Ma volevo parlare con qualcuno che non mi liquidasse come una pazza. Per questo mi sono rivolta a te, Marco. Probabilmente è solo un racconto di un vecchio guardiacaccia. Però… se vuoi scavare, sappi che ci sono anche questi dettagli.” Il giornalista rimase in silenzio. La mente iniziava a formare collegamenti inquietanti: ombre nel bosco, lupi che scompaiono nel nulla, una figura in cappotto scuro dal volto indefinito, urla nella notte… Era possibile che ci fosse un filo rosso a unire tutto? O forse la paura e le leggende del paese avevano mescolato storie vere con storie inventate, creando un mostro più grande di quanto fosse reale? La serata si concluse senza ulteriori rivelazioni. Marco tornò nella sua stanza, con la testa piena di ipotesi e la stanchezza che gli appesantiva le palpebre. Mentre si sdraiava sul letto, il telefono squillò, facendolo sobbalzare. Lo prese con mani tremanti, sperando fosse lei. “Pronto?” Dall’altra parte, una voce che aveva già udito. “Sono Marina.” Lui si sollevò a sedere. “Grazie per avermi richiamato.” Un silenzio carico di tensione. “Non l’ho fatto per gentilezza. Sei stato nella casa, vero? L’ho capito dal tuo tono, dalla tua insistenza. Hai trovato qualcosa…” Marco si umettò le labbra. “Ho trovato un orologio da taschino con le iniziali di tuo fratello Alberto. Era sul pavimento, vicino a una finestra rotta. Ho anche una fotografia che… mostra qualcosa di strano.” Marina espirò con decisione, come se combattesse un conflitto interiore. “Sei incosciente, lo sai? Quella casa non andrebbe mai profanata.” “Profanata?” fece eco Marco, colto di sorpresa dal termine. “Sì, profanata. Ho cercato, per anni, di mettere fine alle voci, di spegnere i pettegolezzi. Ma tu sei entrato là dentro e hai risvegliato… Non so neanche io cosa hai risvegliato. Forse ricordi, forse qualcosa di peggio.” “Marina, ti prego. Aiutami a capire. Non posso fermarmi a questo punto.” Seguì un’altra pausa, durante la quale il respiro di lei si fece più rapido. “Ascoltami bene. Tornerò a Foppolo domani sera. Una volta e basta. Se vuoi, ci vediamo alla casa dei Ravelli. Ma che sia chiaro: se deciderò di parlare, sarà solo per far sì che tu lasci perdere. Spero che tu abbia capito in che guaio ti stai cacciando.” Marco avvertì una scintilla di sollievo misto a paura. “Quando?” “Alle undici di sera, davanti al cancello. E non portare nessun altro.” “Ci sarò.” Click. Il giornalista rimase con il cellulare in mano, incredulo. Marina Ravelli voleva incontrarlo proprio davanti alla casa maledetta, nel cuore della notte. Una parte di lui urlava che fosse una follia, un’altra parte sentiva che quello era il passo decisivo. E così venne l’ora. Alle dieci e mezza della sera successiva, Marco si ritrovò a percorrere lo stesso sentiero, con la neve che scricchiolava sotto i suoi scarponi. Il vento si era alzato di nuovo, fischiando tra i tronchi degli abeti come voci lontane. Nel cielo, un pallido spicchio di luna illuminava a malapena il sentiero, aggiungendo un tocco di tetro romanticismo a un’atmosfera già fin troppo carica di tensione. Aveva avvertito Gianni che quella sera avrebbe avuto un “appuntamento” delicato, senza specificare i dettagli. Il barista si era limitato a un’occhiata di sincera preoccupazione, come se temesse per la sorte di quell’ostinato giornalista. Finalmente, scorse in lontananza l’inconfondibile sagoma della casa dei Ravelli. Anche stavolta, appariva come un gigante addormentato, con le finestre sbarrate che sembravano orbite vuote. Di fronte al cancello semidistrutto, la neve raggiungeva quasi le ginocchia. Non vide nessuno. Probabilmente Marina non era ancora arrivata, o forse si nascondeva nell’ombra, in attesa. Senza entrare, decise di restare fuori, nel punto concordato. Osservò il lucchetto arrugginito che un tempo doveva blindare l’ingresso, rimettendosi in mente i passi che avrebbe percorso se avesse dovuto entrare d’urgenza. Sentiva il cuore rimbombare nelle orecchie. Passarono dieci minuti interminabili. Poi, un rumore di motore ruppe il silenzio. Dai tornanti del paese si fece strada un’auto scura, che rallentò in prossimità del cancello. I fari illuminarono la figura di Marco, abbagliandolo. L’auto si fermò, e lui sentì il portello aprirsi. Una donna scese con passo deciso, avvolta in un lungo cappotto color antracite, i capelli scuri raccolti in uno chignon. Anche a distanza, si percepiva una tensione elettrica nel suo incedere. Si avvicinò a Marco, senza distogliere lo sguardo dalla casa. “Tu devi essere Marina.” Lei annuì appena. “Quella casa… me la sognavo di notte, sai? Per anni. E adesso eccomi qui, a fissarla di nuovo.” I suoi lineamenti, illuminati dalla luce fredda dei fari, rivelavano una donna probabilmente sulla quarantina che provata da un dolore antico. Il viso era segnato da un’espressione dura, fiera, in cui si leggeva chiaramente la paura di essere nuovamente risucchiata in un passato mai chiuso. Marco cercò di rompere il ghiaccio. “Ho portato l’orologio. Qui, nella tasca.” Lei allungò una mano. Senza dire una parola, lo prese e lo guardò a lungo, serrando le labbra. “Era di Alberto,” mormorò, trattenendo un’emozione profonda. “Ricordo quando mio padre glielo regalò. Lui aveva sedici anni, lo custodiva come un cimelio di famiglia.” Il giornalista tacque, lasciandola libera di riappropriarsi di quel frammento di memoria. Passarono svariati secondi, scanditi dal vento che scuoteva gli alberi. Alla fine, Marina ripose l’orologio nella tasca interna del cappotto. “Avevo sperato che niente di tutto questo tornasse mai a galla,” disse, in tono freddo. “Pensavo che lasciando la casa in rovina e non vendendola, nessuno ci avrebbe messo piede. Invece, la curiosità della gente non muore mai.” Marco fece un passo avanti, guadagnando coraggio. “Mi dispiace averti costretta a rivivere certe cose. Ma ho bisogno di capire. E soprattutto penso che anche tu voglia sapere la verità.” Lei scosse il capo, con un sorriso amaro. “La verità? Tu non hai idea di cosa significhi. Non si tratta solo di scoprire dove siano finiti Alberto, Silvia e il piccolo Luca. Si tratta di accettare che qui, a Foppolo, c’è qualcosa che non possiamo spiegare. Qualcosa di cui tutti hanno paura.” “Parli di… qualcosa di sovrannaturale?” Marina spostò lo sguardo sulla casa, come se la fissasse negli occhi. “Non so se è sovrannaturale, maledetto o semplicemente crudele. So solo che ho visto con i miei occhi, anni fa, qualcosa che mi ha tolto il sonno. E che mi ha spinta a scappare, a non tornare più. Fino a stasera.” Marco deglutì. “Vuoi parlarne?” Lei rimase in silenzio, le labbra contratte, gli occhi lucidi. Poi, improvvisamente, sollevò lo sguardo al cielo, come combattuta tra la voglia di raccontare e la paura di farlo. “Ero arrivata al paese il giorno dopo la scomparsa di Alberto. La polizia era già andata via. Nessuno aveva risposte. Mi feci coraggio e salii da sola a vedere la casa… e lo trovai.” “Cosa?” “Non cosa. Chi.” Un lampo di terrore attraversò il viso di Marina. “Una figura, in piedi nell’ombra, proprio all’ingresso. Non ne vedevo il volto, era come avvolto da un mantello o forse da un cappotto lungo. Quando mi avvicinai, sentii un freddo che non era di questo mondo e un fiato gelido contro il mio viso, come il respiro di un animale feroce. Rimasi paralizzata, e la figura… sembrava scivolare all’indietro, come se non camminasse, ma levitasse. Poi scomparve, sparendo tra gli alberi.” Il giornalista sentì un brivido lungo la schiena. “Hai mai raccontato questo alla polizia?” Marina scoppiò in una risata amara. “E che cosa avrebbero fatto? Mi avrebbero presa per pazza. I paesani già facevano fatica a raccontare ciò che aveva visto Tomaso. Nessuno voleva ammettere che qui ci fosse qualcosa che andava oltre la logica. Così me ne andai. Pensando che fosse finita. Ma non è mai finita.” Il vento si alzò con violenza, facendo oscillare i rami degli abeti e costringendo Marco a coprirsi il viso con una mano. La neve cominciò a cadere di traverso, in grossi fiocchi che pizzicavano la pelle come minuscoli aghi di ghiaccio. Marina strinse i pugni. “Ho sognato quella figura. L’ho sognata per mesi. Era come se mi chiamasse a tornare, a cercare la verità. Ma io non ho mai voluto ascoltare. Fino ad ora.” Marco si fece forza. “Allora entriamo. Forse, insieme, possiamo scoprire se c’è qualche traccia, qualche indizio. O magari… qualunque cosa sia, le affronteremo.” Lei lo guardò con un misto di rabbia e compassione. “Sei pazzo, lo sai?” “Forse sì. Ma sono qui.” Un lampo illuminò il cielo, in lontananza. Marina scosse la testa, poi prese una torcia dal bagagliaio dell’auto. “Andiamo. Ma se sentiamo anche solo il minimo rumore sospetto, usciamo. Non voglio rischiare.” I due si avvicinarono lentamente al cancello, che cigolò sotto la pressione delle loro mani intirizzite. La casa dei Ravelli li accolse con la sua solita aria da roccaforte sinistra. Marco riconobbe la finestra rotta, il portico pericolante, la porta d’ingresso che aveva dovuto spingere per entrare la notte precedente. Entrarono. L’odore di muffa e legno marcio li investì come un cimitero di ricordi. La sala da pranzo, con il tavolo ancora apparecchiato di stoviglie polverose, appariva in tutta la sua desolazione. Marina si fermò sulla soglia, sgranando gli occhi. “Dio mio,” mormorò. “Non è cambiato nulla.” La luce della torcia fece luccicare i frammenti di un bicchiere rotto. Un rumore improvviso al piano di sopra gelò il sangue di entrambi: un passo, un cigolio, o forse il suono della casa che si assestava sotto l’azione del vento. Ma in quel silenzio assoluto, ogni minimo rumore sembrava un boato. Marina strinse il braccio di Marco. “L’hai sentito?” “Sì. Ho sentito qualcosa.” Salirono le scale con cautela, passo dopo passo, sorreggendosi al corrimano malfermo. L’aria era più fredda, come se, a quel piano, il gelo potesse infilarsi da ogni fessura. Marco puntò la torcia sul corridoio: lungo le pareti scrostate, sembravano scorrere ombre fugaci. Un silenzio pesante li schiacciava. Giunsero a una porta in fondo, semichiusa. Marina posò una mano sul legno, come in segno di rispetto. “Questa era la stanza di Luca,” sussurrò. Marco deglutì. Sentiva un nodo in gola al pensiero di quel bambino di dieci anni, scomparso nel nulla. E se fosse ancora lì, in qualche modo, come un’eco del passato? La porta si aprì con un cigolio lamentoso. All’interno, la luce della torcia rivelò un letto a una piazza, con lenzuola accartocciate, un vecchio peluche coperto di polvere e un mobile per i giocattoli. Ogni cosa sapeva di abbandono, di una quotidianità interrotta bruscamente. Marina si inginocchiò e prese in mano il peluche, scuotendo via la polvere. “Glielo regalai io, quando aveva sette anni. Mi ha sempre chiamata zia Marì.” Poi, un fruscio di passi fece vibrare le assi del pavimento dietro di loro. Marco si girò di scatto, puntando la torcia nel buio. Niente, solo l’oscurità. Ma giurò di aver percepito un movimento veloce, come un’ombra che attraversava il corridoio. Gli si raggelò il sangue nelle vene quando, improvvisamente, la porta della stanza si chiuse da sola con un colpo secco. Un soffio di vento gelido investì i due, e la torcia di Marina iniziò a lampeggiare, come se stesse per scaricarsi. “Marco…” sussurrò lei, con voce tremante. Lui si avvicinò alla porta, tentando di riaprirla. Sembrava bloccata dall’esterno. “Non si apre,” disse, provando un’ansia crescente. “È come se qualcuno la tenesse ferma.” Allora la torcia si spense del tutto, lasciandoli immersi in un buio totale, illuminato appena dalla fioca luce lunare che entrava dalla finestra rotta. Marco provò a usare il cellulare, ma lo schermo rimase nero, come fosse improvvisamente senza batteria. Al di là della porta, un rumore di passi: lenti, strascicati, come se qualcosa si muovesse rasente il muro. C’era un respiro, flebile e disumano, che sembrava graffiare l’aria in un rantolo spettrale. Poi un sussurro appena percettibile, un’implorazione che faceva gelare il sangue: “Via… andate via…” Marina sentì le gambe cedere, la paura la paralizzò. Marco l’aiutò a rimanere in piedi, sentendosi egli stesso sul punto di fuggire da quella stanza. Eppure, un senso di dovere verso quella verità sconosciuta lo spinse a gridare: “Chi sei? Che vuoi?” Nessuna risposta, se non un altro suono ancora più minaccioso, come un rantolo che si strozzava in gola. Dopo qualche istante, la porta si riaprì da sola, cigolando. Il corridoio appariva vuoto. Marina e Marco corsero fuori, puntando il fascio di luce della torcia che si era riaccesa di colpo, come per miracolo. Non c’era nulla, né un segno, né un’orma nella polvere. Ma entrambi sentivano di non essere soli in quella casa. “Basta!” urlò Marina, con la voce rotta dall’ansia. “Basta, usciamo di qui. Ti prego!” Marco annuì, stordito. La sua parte razionale faticava a dare una spiegazione logica a quanto accaduto. Ogni suono, ogni corrente d’aria, ogni interferenza elettrica poteva essere plausibile, ma tutto insieme… e quell’orribile sussurro, come un monito. Si precipitarono giù per le scale, quasi cadendo a causa delle assi sconnesse, e raggiunsero la porta d’ingresso. Al di fuori, l’aria notturna, per quanto gelida, parve un balsamo rassicurante. Non si dissero nulla. C’era troppa paura, troppa confusione. Raggiunsero l’auto di Marina, che si avviò con un rombo sordo. Marco salì al posto del passeggero, ansimando. Lei partì sgommando sulla neve, divorando il sentiero che li separava dal paese. Solo quando furono al sicuro tra i lampioni fiocamente illuminati di Foppolo, si concesse un singhiozzo liberatorio. “Adesso sai perché non volevo che ci tornassi,” disse, con le labbra tremanti. “C’è… c’è qualcosa lì dentro.” Marco la guardò, ancora pallido in volto. “Ma che cos’è? E perché ci ha detto di andare via?” Marina scosse il capo, stringendo le mani sul volante. “Non lo so. Forse… forse una parte di loro è rimasta intrappolata. O, al contrario, forse ciò che ha preso i Ravelli non gradisce visite. In ogni caso, è qualcosa di terribile.” Calò un lungo silenzio. Rimasero in macchina, i respiri pesanti, l’adrenalina che scorreva ancora forte. Poi lei spense il motore, lanciando uno sguardo a Marco. “Ora che hai visto con i tuoi occhi, andrai ancora avanti?” Il giornalista si prese qualche secondo per rispondere, gli occhi nel vuoto. “Non posso fermarmi. Non dopo essere arrivato a questo punto. Ma non ti obbligherò mai più a seguirmi, se non te la senti.” Marina scosse la testa. “Ormai ci sono dentro anch’io. Ho passato anni a cercare di scappare da questa storia. Ma non si può scappare da ciò che ci segue dentro. Io voglio scoprire la verità, fosse anche l’ultima cosa che faccio.” Le sue parole risuonarono come un giuramento. E Marco capì che, in quell’istante, lui e Marina erano diventati complici: legati dal terrore, dalla speranza di trovare una risposta a quel mistero. Forse i Ravelli non erano più di questo mondo, ma ciò che li aveva inghiottiti andava scovato, affrontato, in un modo o nell’altro. Si separarono poco dopo, ognuno con i propri demoni. Marco tornò all’Albergo Bernardi, dove la luce fioca di un corridoio semibuio lo accompagnò nella sua stanza. Disteso sul letto, sentiva ancora nelle orecchie quel sussurro raggelante: “Via… andate via…” In lontananza, un ululato si perse tra i picchi delle montagne, come una triste nenia che nessuno voleva più ascoltare. Fuori, Foppolo dormiva sotto la neve, silenziosa testimone di un enigma che sembrava farsi sempre più profondo. Adesso c’erano nuovi alleati e nuove domande, ma anche la certezza che il cuore di quel mistero non fosse solo una storia di persone scomparse. In gioco c’era qualcosa di più grande: un’oscurità che permeava la casa abbandonata e forse tutto il bosco intorno, pronta a manifestarsi sotto forma di ombre, sussurri e apparizioni. Marco chiuse gli occhi, sapendo di dover riposare. L’indomani avrebbe dovuto cercare risposte, parlare ancora con Marina, magari consultare documenti più vecchi, interrogare gli archivi. Tuttavia, aveva la netta sensazione che quel viaggio non avrebbe portato soltanto la verità: sarebbe stato un viaggio dentro la paura più primordiale, in una terra dove non c’era spazio per i deboli di cuore. Così si concluse la sua seconda notte a Foppolo, con il vento che ululava come un avvertimento e la neve che cadeva spietata, cancellando ogni traccia dei loro passi. E, al centro di tutto, rimaneva lei: la casa dei Ravelli, murata nel suo silenzio spaventoso, abitata forse da presenze o memorie che sfidavano la logica umana. Un luogo dove il tempo si era fermato a quel gelido gennaio del 1983, in attesa che qualcuno scoperchiasse finalmente il vaso di Pandora. Le luci dell’albergo si spensero una dopo l’altra, come occhi che preferivano non vedere. In un paese che sembrava circondato da troppi segreti, due persone avevano deciso di unire le forze: il giornalista testardo e la donna segnata da un dolore antico. Quella notte, nessuno dei due poteva immaginare quanto in profondità li avrebbe condotti la loro indagine, né quale orrore si celasse tra le mura di pietra e legno corroso. Il secondo atto dell’enigma era appena cominciato. E le ombre, nella neve, sembravano danzare un macabro richiamo, invitando i più coraggiosi a varcare la soglia del mistero. © Vietata la Riproduzione#marcoarezio
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