DALL’ALPINISMO DI CONQUISTA ALL’ARRAMPICATA RISPETTOSA DELLA MONTAGNA

Ambiente
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare - Dall’Alpinismo di Conquista all’Arrampicata Rispettosa della Montagna

Evoluzione storica dei mezzi di scalata delle pareti e del rapporto con l’impresa tecnica


di Marco Arezio

Dalla fine del 1800 quando i primi pionieri, non ancora definiti alpinisti, si avventuravano sulle montagne nel tentativo di raggiungere le vette, esisteva più una spinta conoscitiva dell’ambiente montano che sportiva.

Ci salivano geologi desiderosi di studiare aree poco conosciute, militari con lo scopo di aggiornare il più possibile le carte geografiche e vi salivano, intrepidi signori, che avevano i soldi per farsi accompagnare da guide locali.

Il movimento alpinista possiamo dire sia nato dopo la seconda guerra mondiale, quando iniziarono le scalate degli ottomila himalayani, intesi come terra di conquista nazionale, con una corsa a chi prima raggiungeva la vetta.

Gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso trascorsero vivendo un alpinismo “militare”, dove le spedizioni erano rigidamente organizzate come assalti alle vette meticolosamente preparate, con un esercito di alpinisti, portatori, cuochi, giornalisti, dirigenti e uomini di collegamento.

Nulla era lasciato al caso in quanto erano li solo per conquistare la vetta, a tutti i costi e con qualunque mezzo a disposizione.

La montagna era un oggetto da prendere, mezzo con cui darsi gloria e pillola per accrescere l’autostima di un paese e di un popolo.

Si usava l’ossigeno per salire in quota, corde fisse che venivano abbandonate sul posto, si attrezzavano campi avanzati con tende, fornelli, bombole del gas e dell’ossigeno che venivano lasciate sulla montagna, come fosse una pattumiera a cielo aperto.

Conquistati tutti gli 8000, gli alpinisti più giovani, già alla fine degli anni ’60 si sono chiesti se non esisteva una nuova forma di rapporto con la montagna, un modo diverso e più rispettoso di approcciarsi all’ambiente alpino.

I nuovi alpinisti iniziarono a risalire le pareti smettendo di pensare che l’uomo si doveva muovere con uno spirito di conquista a tutti i costi, ma doveva inserirsi nell’ambiente, creare una simbiosi con la montagna, essere leali nel gesto atletico che permetteva di scalarla.

Iniziarono a contestare le salite fatte riempiendo la roccia di chiodi a pressione, inseriti con martelli pneumatici, che davano la possibilità di superare le difficoltà che opponevano le pareti, creando una sorta di scala aerea.

Abbandonarono l’uso dei chiodi, mezzi visti come elemento di aiuto per facilitare le scalate, iniziando ad utilizzare dei mezzi di protezione che non sarebbero rimasti in pareti dopo la scalata, ma recuperati dal compagno di cordata, così da non lasciare traccia del passaggio.

Infatti, nel 1967, l’alpinista Americano Royal Robbins vede in Inghilterra i primi prototipi di sistemi di sicurezza da inserire nelle fessure della roccia, senza che questa si rovini o si distrugga, come l’inserimento di un chiodo.

Porta così in America questa novità e nel giro di qualche anno uno scalatore dello Yosemite, Yvon Chouinard, inizia la produzione di questi sistemi di sicurezza sostenibili.

Si tratta di dadi, rondelle mobili, esagoni cavi, cunei, tutti in metallo e di diverse forme e grandezze chiamati nuts e friends, che vengono inserite nelle fessure naturali della riccia e recuperate dal compagno di cordata.

Una rivoluzione che ha battezzato l’inizio dell’arrampicata pulita ed ecocompatibile, a cui gli scalatori tradizionali che usavano mezzi di sicurezza invasiva, guardavano con sospetto e autosufficienza.

Il nuovo approccio all’arrampicata delle pareti rocciose dilagò a macchia d’olio nel mondo, marginalizzando in un paio di decenni, l’alpinismo tradizionale.

Assodato che l’approccio alla montagna dovesse essere sostenibile e non invasivo, le nuove generazioni si misurarono, negli anni a avvenire, con il superamento di pareti sempre più difficili, utilizzando quello che venne definita “arrampicata libera” che si basava solo sulla forza, sull’abilita e sul coraggio dell’alpinista.

Le pareti che un tempo erano state salite con chiodi e scalette, vennero percorse solo attraverso gesti atletici perfetti.

Nel nuovo millennio, quando si esaurì la spinta di ripetere le pareti tecnicamente più complicate attraverso l’arrampicata libera, nacque una nuova forma di arrampicata, estrema sicuramente, che si caratterizzava nelle ripetizioni di queste vie molto difficili, senza corda e sistemi di sicurezza.

Un alpinismo pericoloso, per pochi eletti, dove l’uomo è nudo nei confronti della montagna, senza protezioni di sicurezza, senza possibilità di scendere dalla parete velocemente, senza la possibilità di sbagliare.

Questa disciplina è vista, da una parte dall’ambiente, come la consacrazione delle qualità tecniche di un atleta, ma dall’altra parte come un’attività suicida, dove un piccolo errore può mettere in gioco la vita.

I leader di questa disciplina è l’americano Alexander Honnold che ha salito in free solo, nel 3 giugno 2017 la via Freerider a El Capitan, di 884 mt. con difficoltà di 5.12d VI in 3 ore e 56 minuti.


Foto Nat Geo



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