SLOW LIFE: NON FARE IN MODO CHE GUARDANDOTI INDIETRO TI POSSA PENTIRE

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Spendere il tuo tempo per raggiungere in modo ossessivo solo i tuoi obbiettivi ti fa perdere il senso della vita

di Marco Arezio

Avevo la vita davanti, il tempo non era nulla, un’entità astratta che guardavo sull’orologio per scandire la mia esistenza frenetica, fatta di impegni, occasioni e traguardi.

Dopo la scuola ero pronta a misurarmi con me stessa, prima che con gli altri, e quale miglior occasione poteva esserci nell’entrare nel mondo del lavoro.

Conobbi subito la gerarchia culturale, lo snobismo delle etichette e la lunga fila di gradini professionali davanti a me che mi attiravano, come le api sul miele. Avevo inconsciamente deciso che non esisteva niente che mi potesse distrarre nel perseguire quell’ascesa, una scala costruita più nella mia mente che nella vita reale.

Sgomitando, spingendo, impiegando ogni mia risorsa emotiva ho dedicato una parte dei miei primi anni come lavoratrice nell’iniziare a percorrere la mia strada, salendo su scale diverse in base alle occasioni aziendali che cercavo in modo incessante.

Poi l’impegno delle mie giornate dedicate al lavoro non fu più sufficiente per continuare a salire gli scalini, e mi accorsi ben presto che avrei dovuto conseguire una laurea per poter fare uno scatto in avanti che in quel momento mi era precluso.

Così diventai una studentessa lavoratrice, lavorando di giorno e studiando di sera, consumando cinque anni della mia vita tra l’azienda e lo studio, relegando la mia vita sentimentale ad una effimera e fragile esistenza, fatta di occasioni posticipate, frequentazioni frettolose e consumo a tempo.

Ho raggiunto la laurea, senza accorgermi che il tempo passava e che il mio isolamento era aumentato, chiusa in me stessa, protesa verso la ricerca di una nuova scala da risalire. Mi guardavo indietro ma vedevo solo ciò che mi interessava, cercando di mettere a fuoco il divario che avevo messo tra la mia vita precedente e quella che avrei potuto vivere adesso.

Il mio compagno alla soglia dei 30 anni intavolava discorsi sulla famiglia, sul piacere che ci avrebbe dato avere dei figli, di progettualità e di una vita normale, fatta di affetti e condivisione, per costruire finalmente qualche cosa insieme.

Già, sottolineava spesso la parola insieme, perché di progetti in comune ne avevamo avuti davvero pochi, anche a letto le cose non andavano tanto bene, perché io non volevo fermare il cervello, non riuscivo a lasciarmi andare, sempre occupata a pensare cosa fare di più intelligente e costruttivo in azienda rispetto ai miei colleghi.

Il tempo passava e a fronte di sue richieste precise su cosa volessi fare da grande, ogni volta si apriva un solco sempre più grande tra noi, di solitudini in coppia, di interessi diversi e di ricordi sbiaditi della nostra unione.

Passò anche il tempo naturale per fare i figli e, alla fine passò anche lui, dopo averlo spinto a cercare un’altra strada per la sua vita, visto che la mia era sempre più occupata nel raggiungere traguardi che vedevo solo io.

Se ne è andato, voltandosi indietro più di una volta, ma io non lo stavo più guardando, in realtà non lo guardavo da parecchi anni, quindi non ho colto il suo ultimo gesto di tregua.

Un giorno, la vita mi presenta la morte di mia mamma, prematura, improvvisa, alla quale non ero preparata e, per la prima volta, non avevo la solita risposta pronta, il solito efficientismo da manager che risolve ogni cosa, perché in questa occasione, non si poteva più risolvere nulla.

La perdita di un affetto così diretto mi ha aperto un senso di inquietudine, un continuo richiamo al perché l’avessi trascurata, con visite fugaci, con il telefonino sempre in mano durante i miei incontria casa sua, sempre pronta a rispondere a qualche email di lavoro, come se questo assillante senso di impegno mi facesse pensare che potevo sembrarle una persona arrivata, realizzata e quindi potesse essere fiera di me.

Quanti appuntamenti saltati, quanti compleanni disattesi, quante promesse fatte e non rispettate hanno corollato il nostro rapporto, quanto volte le ho detto: adesso non ho tempo, domani, forse.

Dopo qualche anno dalla sua perdita, passati i 55 anni, nella mia casa vuota, con le avvisaglie di una parabola lavorativa discendente, ho cominciato, lentamente e senza volerlo a guardarmi indietro, scorrendo la mia vita, cercando l’orgoglio di cosa avevo fatto e di cosa potevo rappresentare per tutte le persone che avevo incontrato, diretto e, forse un po' plasmato per ammirarmi.

Ho trovato solo tristezza, rimpianto, solitudine e occasioni perse, quello per cui avevo corso tutta la vita non aveva il valore che mi sarei aspettata, ad ogni montagna scalata mi sono accorta, tardi, che ce n’erano altre, e poi altre ancora, fino a che non cadevi sfinita dalla fatica.

Nessuno ti raccoglie, nessuno ti soccorre, altri più in forze di te ti sorpassano, ti calpestano e tu cadi rovinosamente a terra, nella bufera dei tempi, consumata dalle ripide pareti della vita. Non c’è la possibilità di scendere al campo base per rifocillarsi, per riprendere le forze, per tornare a combattere, perché la discesa è più impervia della salita e le energie ormai ti mancano per camminare.

Resto sola, sdraiata sulla neve gelata, con altri che reclamano i miei gradini saliti, ridendo soddisfatti mentre chiudo gli occhi e mi abbandono all’oblio.


Categoria: Slow life - vita lenta - felicità


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