Quando gli anelli deboli della catena di comando non permettono la crescita degli juniors managersdi Marco ArezioDopo i lunghi periodi di studi universitari e, talvolta, reduci da un master di specializzazione, i giovani managers sono ansiosi di misurare le loro capacità, sviluppare le loro ambizioni e raggiungere i loro obbiettivi professionali. Spesso trovano occupazioni in aziende già strutturate, in cui la catena di comando è abbastanza lunga, i passi per salirla non sempre banali e la competizione tra colleghi sempre accesa. Un buon campo di prova per misurare le proprie capacità, sviluppare competenze e, a volte, proporre novità che possano portare beneficio all’azienda, attraverso un occhio nuovo, non compromesso dalle abitudini di lavoro interno. Lo junior manager che avesse sviluppato soluzioni interessanti, magari da approfondire ulteriormente, o avesse trovato delle inefficienze da risolvere per migliorare nella catena del lavoro, si rapporterà con il proprio manager da cui dipende. Dovrà sviscerare nei dettagli il processo di miglioramento studiato, o i difetti della linea di lavoro che secondo lui potrebbe essere implementata, o portare delle efficienze nella circolazione delle attività, o suggerire cambiamenti di strategie commerciali, di marketing, degli acquisti o in altri ambiti in cui ha focalizzato il proprio interesse. Le buone idee, in certe aziende, possono pesare quanto quelle negative, nel senso che possono dare fastidio a chi le riceve, che deve, a sua volta, proporre alla catena di comando sopra di lui. Non stiamo in questo caso ad analizzare il comportamento di un manager che, sicuro delle sue competenze e del proprio ruolo, incentiva gli juniors managers a sviluppare iniziative che possano essere degne di nota da proporre in ambiti più alti dell’azienda. Oggi ci occupiamo del manager intermedio, che teme il dovere veicolare iniziative diverse dalla propria routine, che possano mettere in discussione l’ambito di lavoro e di controllo che ha esercitato, nel tempo, sul suo posto di lavoro. Il trasferimento della proposta dallo junior manager al responsabile intermedio, avviene normalmente attraverso una profonda esplicazione dei dettagli della stessa, dove spesso, ascoltandola, vuole sapere i legami interni ed esterni all’azienda, gli strumenti necessari per gestire la novità, quali ambiti aziendali dovrebbe toccare e come potrebbe cambiare il suo lavoro e la sua tranquillità. Un manager di questo tipo ascolta, domanda, crea una sorta di complicità nel progetto, chiede allo junior manager riservatezza sul progetto e mantiene un rapporto di finto privilegio comunicativo con il suo sottoposto. Cerca di dargli quell’importanza che il proponente si aspetta di avere, qualificando la sua proposta e gratificandolo verbalmente per il rischio che si è assunto esponendosi a possibili di errori personali. A questo punto il manager, anello debole della catena di comando, avendo in mano tutte le carte e conoscendo esattamente la proposta, si sente in grado di elaborare una strategia che possa tornare a suo vantaggio. Se la proposta è effettivamente migliorativa, valida e importante per l’azienda, cercherà di vendere l’idea, ai suoi superiori, come una sua iniziativa, nata da un confronto, magari, con il gruppo di lavoro che dirige, attraverso il quale ha analizzato varie opinioni ed elaborato, in modo autonomo, il progetto che potrà portare un giovamento all’azienda. Potrebbe raccogliere la gratificazione dei suoi superiori e darà un minimo riconoscimento al team che, con “tanta cura dirige”, negando uno spazio di confronto tra lo junior manager e la fascia alta dell’azienda che decide. Il successo sarà del manager in primis, del gruppo di lavoro in seconda battura, facendo cadere su di sé anche il successo del gruppo che dirige. Se, in caso contrario, l’idea fosse negativa, sbagliata o non molto produttiva, terrà conto degli errori commessi dallo junior manager, anche se solo nell’elaborazione di una proposta, in modo che possa far valere, come arma di scambio, in periodi successivi gli errori del passato. Questo anello debole della catena di comando è abbastanza diffuso nelle aziende di una certa dimensione, e gli juniors managers, prima di esporsi devono cercare di conoscere il proprio superiore e capire i risvolti del suo carattere, la sincerità e la sua sicurezza nel gestire le risorse umane, senza secondi fini.
SCOPRI DI PIU'Trattative in corso per il controllo della società Novamont attiva nella produzione di bioplasticheIl nome di Novamont e del suo polimero di punta il Mater-Bi, sono conosciuti da tutti gli attori del settore delle plastiche vergini, riciclate e delle bioplastiche, come l’azienda di punta della filiera, in continua evoluzione, nella produzione delle bioplastiche, biodegradabili e compostabili. Il polimero di Novamont è appunto il Mater-Bi, una plastica completamente biodegradabile e compostabile, che permette il suo recupero, a fine vita, attraverso la raccolta e il riciclo dei rifiuti organici urbani, utilizzando i processi di compostaggio e digestione anaerobica. Ma quale è la differenza tra biodegradabilità e compostabilità? Il processo di biodegradazione è la capacità delle sostanze e dei materiali organici di essere degradati in sostanze più semplici, mediante l’attività (enzimatica) di microorganismi. Quando il processo biologico è completo, si ha una totale trasformazione delle sostanze organiche di partenza in molecole inorganiche semplici: acqua, anidride carbonica e metano. Ma la biodegradazione è influenzata da molti fattori, come le temperature, il tasso di umidità, la natura chimica dei materiali da lavorare. Per questo motivo gli ambienti industriali del compostaggio e della digestione anaerobica favoriscono ed accelerano questi processi. Per quanto riguarda la compostabilità di un materiale, si può dire che è la capacità di un elemento di trasformarsi in compost (concime) attraverso il processo di compostaggio. Questa attività, in presenza di ossigeno, comporta la realizzazione di una trasformazione biologica e aerobica del materiale fino a trasformalo in compost. Novamont, utilizzando risorse naturali come il mais e gli oli vegetali non modificati geneticamente, ha realizzato una famiglia di polimeri biodegradabili e compostabili che si possono usare per la realizzazione di film per il commercio e l’agricoltura, oggetti di varie tipologie attraverso lo stampaggio per iniezione e molte altre cose. Alla luce di queste conoscenze tecnico-commerciali, si sta concludendo un’operazione di acquisizione della società Novamont da parte di Versalis, che la porterà a detenere l’intero pacchetto azionario di Novamont. A sua volta Versalis è una società del gruppo ENI fortemente impegnata nella chimica verde, anche attraverso la conversione di raffinerie petrolifere in bioraffinerie per la produzione di combustibili sostenibili.Foto: Novamont
SCOPRI DI PIU'Quali miglioramenti fisico-meccanici degli impasti polimerici si ottengono con l'utilizzo delle nanocarichedi Marco ArezioNella produzione di polimeri riciclati o compounds con polimeri vergini, alcune ricette prevedono l’aggiunta di una certa percentuale di cariche minerali al fine di modificare alcune caratteristiche. Tra quelle più usate troviamo il carbonato di calcio, il talco, la fibra di vetro e la mica, sotto forma di polvere, granuli o fibra, che vengono dispersi in fase di miscelazione con il polimero. Il talco e il carbonato di calcio vengono normalmente aggiunti in percentuali variabili dal 10 al 50% per modificare alcune caratteristiche dei polimeri, come la resistenza meccanica a compressione, la lavorabilità, la riduzione di dilatazione, il miglioramento o la riduzione della fluidità o, semplicemente per questioni economiche. L’uso delle cariche minerali negli impasti polimerici porta anche con sé alcune problematiche da tenere presente, in funzione delle percentuali d’uso e del tipo di carica. In generale, si può dire che la densità dell’impasto polimerico aumenta, la brillantezza dei colori diminuisce, la fragilità del prodotto può diventare consistente e l’usura delle macchine tende ad incrementare. Molte di queste caratteristiche negative durante le lavorazioni, ma che si riverberano anche sui prodotti finiti, possono essere risolte utilizzando le nanocariche. Queste ultime possono essere definite come una nuova classe di materiali compositi, costituiti da una matrice polimerica e da rinforzi particellari, aventi almeno una dimensione dell’ordine del nanometro. Queste nanocariche si possono definire, a tutti gli effetti, dei nanofiller e vengono classificate i tre categorie in base alla loro struttura: • nanocariche 3D (isodimensionali) definite come nano particelle o nanosfere con una dimensione inferiore a 100 nm. • fibre o tubi aventi diametro inferiore a 100 nm. come, per esempio, i nanotubi di carbonio. • nano-layers, sono caratterizzati da una sola dimensione dell’ordine dei nanometri, tipicamente si presentano in forma di cristalliti inorganici stratificati in cui ogni strato possiede uno spessore di alcuni nanometri, mentre le altre due dimensioni possono raggiungere anche le migliaia di nanometri (per esempio le nanoargille). Il vantaggio delle nanocariche, oltre ad altre, è la migliore dispersione rispetto a quelle minerali, con una migliore adesione alla matrice e un miglior saturazione degli spazi. Inoltre, possiamo citare un altro vantaggio fondamentale che riguarda il miglioramento delle prestazioni fisiche e meccaniche dell’impasto polimerico, con una bassa percentuale di utilizzo. Mentre, come abbiamo detto, per modificare le caratteristiche degli impasti polimerici attraverso le cariche minerali si utilizzano percentuali variabili tra il 10 e il 50%, con le nanocariche la percentuale di utilizzo è intorno al 5-10%. Questa ridotta percentuale porta a limitare l’innalzamento della densità e a migliorare la lavorabilità rispetto ad altri sistemi di carica tradizionali. Se consideriamo un impasto polimerico con un 5% di nanocariche, possiamo dire che le proprietà fisco-meccaniche possono essere superiori, rispetto al polimero base e anche allo stesso caricato con un filler minerale. In particolare avremo: • maggiore resistenza all’abrasione e all’urto • maggiore rigidità • diminuzione del valore di espansione termica • maggiore stabilità dimensionale • ridotta permeabilità al gas • migliore resistenza ai solventi • minore rilascio di calore durante la combustione • facilità di riciclabilità Inoltre, ci sono dei vantaggi estetici utilizzando le nanocariche, che sono comparabili all’uso del solo polimero originale, in quanto una migliore distribuzione nella massa crea una migliore qualità superficiale rispetto all’uso delle cariche tradizionali. In particolare possiamo citare una migliore trasparenza ottica, una minore rugosità, una migliore brillantezza dei colori e una migliore stabilità dimensionale del prodotto nel tempo. Categoria: notizie - tecnica - plastica - nanocariche polimeriche
SCOPRI DI PIU'Le scoperte nel campo chimico avviarono produzioni industriali in molti campi e con esse la necessità di riutilizzare i rifiutidi Marco ArezioLa rivoluzione chimica, che a partire dal 1700 interesserò le nazioni europee più progredite, pose in evidenza i primi problemi ambientali creati dagli scarti delle produzioni chimiche. Iniziò in quel periodo, insieme alle nuove scoperte, la ricerca di riutilizzo dei rifiuti prodotti dall’uomo. Il primo processo chimico industriale, in senso moderno, è stato quello inventato nel 1791, dal chimico francese Nicolas Leblanc (1742-1806), per la produzione del carbonato sodico in due passaggi. Leblanc ebbe, tuttavia, una vita lavorativa travagliata in quanto le sue ricerche furono finanziate inizialmente dal Duca di Orleans Filippo Egalité, con la speranza di poter vincere il premio messo in palio dall’Accademia delle Scienze Francesi per poter iniziare quindi una produzione industriale. Tuttavia nel 1793 il Duca venne giustiziato e i brevetti di Leblanc non furono riconosciuti validi, ricevendo anche la confisca dello stabilimento di produzione e il rifiuto del premio sperato. Nonostante Napoleone nel 1802 gli restituì la fabbrica, senza premio in denaro, Leblanc non ebbe le forze economiche per ripartire e nel 1806 di suicidò. La prima fase del processo di produzione del metodo Leblanc consisteva nel trattare il cloruro di sodio con acido solforico, il quale si formava in solfato di sodio, creando un rifiuto sotto forma di acido cloridrico gassoso, che per molto tempo fu rilasciato in atmosfera con gravi problemi verso le popolazioni che abitavano nelle vicinanze delle fabbriche e con la distruzione della vegetazione circostante. Il secondo passaggio consisteva nello scaldare il solfato di sodio con carbone e carbonato di calcio, miscela con la quale si otteneva il carbonato di sodio e il solfuro di calcio, poco solubile in acqua, che rappresentava il rifiuto solido del processo e veniva scartato costituendo mucchi all’aria aperta. Durante l’esposizione alle piogge, si liberava idrogeno solforato, gas nocivo e puzzolente. Gli abitanti iniziarono forme di protesta degne di nota contro l’inquinamento atmosferico, creando di fatto le prime contestazione ecologiche, che spinsero gli industriali della soda a cercare delle soluzioni al problema. In quell’occasione l’industria chimica scoprì che dai rifiuti era possibile recuperare qualcosa di utile e vendibile, infatti dall’acido cloridrico era possibile ottenere cloro, una merce che si capì che aveva un suo mercato finale e dal solfuro di calcio era possibile recuperare zolfo, che sarebbe stato vendibile alle fabbriche di acido solforico. Nel XIX° secolo, periodo in cui iniziò a fiorire l’industria pesante dell’acciaio, l’inventore francese Pierre Émile Martin (1824-1915) nel 1865 mise a punto un forno che poteva decarburare la ghisa su larga scala e poteva essere caricato con ghisa fusa ma anche con i rottami di ferro. Nel corso dell’Ottocento infatti, tali rottami si stavano accumulando a seguito della sostituzione dei vecchi macchinari con quelli nuovi, cosi questi rifiuti diventarono materie prime seconde, come le chiamiamo oggi. Il XX° secolo ha visto il progresso industriale crescere in modo continuo e vorticoso, passando da due guerre mondiali, una grande crisi economica-industriale, la conquista dello spazio, le nuove tecnologie, il benessere diffuso, la guerra fredda con la corsa alla creazione degli arsenali atomici, lo spostamento per lavoro e per turismo di grandi masse di persone attraverso l’industria aeronautica, lo sviluppo dei satelliti e le tecnologie legate alla comunicazione hanno alimentato un nuovo mercato di apparecchi, spinti anche dalla nuova intelligenza artificiale che ci fa comunicare attraverso i computers. Tutto questo progresso ha creato un numero crescente di rifiuti che nel passato erano abbandonati in modo superficiale nelle discariche, sulle quali venivano create graziose collinette cosparse di alberi, ma nel sottosuolo non ci si preoccupava di sapere se i rifiuti interrati continuassero a rilasciare i loro veleni. Si capì, più tardi, che molti rifiuti pericolosi continuavano a vivere e ad interagire negativamente con l’ambiente, per cui si iniziò a creare delle linee guide su come isolare le discariche da eventuali perdite di liquami tossici. Qualsiasi sforzo fatto per “nascondere” i rifiuti sembrava vano visto la continua crescita di merce dello scarto e, quindi, si iniziò a parlare di riciclo e termodistruzione. Se la strada di bruciare i rifiuti sembrava fosse comoda e “purificatrice”, ci si accorse ben presto che l’inquinamento espresso da un rifiuto solido pericoloso non sublimava con il fuoco, ma veniva solamente trasformato da solido in fumi, andando ad inquinare l’aria e, a cascata con le piogge, i terreni. Si dovette arrivare alle nuove generazioni di termovalorizzatori per risolvere questo problema ambientale e creando nello stesso modo energia elettrica rinnovabile. Il riciclo meccanico fu allora il solo mezzo per recuperare e riutilizzare i rifiuti che si accumulavano, ma ci volle molto tempo perché i governi e la popolazione capissero che si doveva iniziare con la raccolta differenziata e che l’industria aveva bisogno di normative precise per produrre arrecando i danni minori possibili all’ecosistema. Il futuro del riciclo si raggiungerà con l’integrazione tra processi meccanici, chimici, coadiuvati dalle energie rinnovabili.Categoria: notizie - plastica - economia circolare - rifiuti - storiaImmagine: Vernet, Claude Joseph – Seaport by Moonlight – 1771
SCOPRI DI PIU'Un accordo storico tra due società per aiutare il settore vitivinicolo Francese ad affrontare la mancanza di vetroIl vino ha provato in passato ad uscire dalle solite bottiglie in vetro da 75 cc., entrando nel cartone per esempio, ma con risultati non eccelsi. Un imballo troppo diverso, anche visivamente, che non è piaciuto ai degustatori del nettare degli Dei, sollevando anche alcuni dubbi sulla qualità e durata del vino all’interno di questo packaging in cartone. Ora la Francia, famosa nazione per quantità e qualità del vino, vive la difficoltà nel reperire il vetro per le bottiglie tradizionali e, anche a causa dei costi saliti alle stelle, si è domandata come poter risolvere il problema. Così, due società specializzate nel packaging per il settore vitivinicolo e nelle soluzioni sostenibili per l’industria dell’imbottigliamento, hanno unito i loro sforzi per andare incontro alle aziende agricole Francesi che producono vino. La collaborazione tra Vinventios, azienda specializzata nella produzione di chiusure sostenibili per bottiglie, inserita nella filiera della produzione del vino in molti paesi del mondo e Packamama, azienda specializzata nella produzione di bottiglie per il vino in rPET, ha dato i suoi frutti sul mercato Francese. Le nuove bottiglie in rPET andranno a sostituire le classiche cilindriche in vetro, che tutti conosciamo, apportando, non solo una novità stilistica nella bottiglia, in quanto ovalizzata e non cilindrica, ma anche un messaggio forte dal punto di vista ambientale, utilizzando l’rPET, riciclato al 100%, che secondo Packamama, aiuterà le cantine ad abbattere la loro impronta di CO2. Inoltre, il PET riciclato per alimenti è certificato in Europa e negli USA, non reagisce ai cibi e alle bevande, non ha alcun impatto sul gusto ed è privo di PBA. Il vantaggio della bottiglia riciclata in rPET non è solo espresso nel miglioramento del marketing dell’imballo e nel vantaggio ambientale, passando dal vetro alla plastica, ma ha anche un grande vantaggio economico nei trasporti e, quindi, nel risparmio di costi e di carburante bruciato per la logistica. Infatti, secondo Packamama, la bottiglia in rPET, del tutto simile a quella in vetro, anche nel colore, pesa solo 63 gr. che corrisponde all’87% in meno di una di vetro, con risvolti evidenti sull’impronta carbonica nella logistica. Secondo Packamama la Francia sta vivendo una serie di coincidenze negative nel settore del vino, come la mancanza di bottiglie in vetro, i loro prezzi molto più altri che in passato e la disaffezione al vino da parte delle generazioni più giovani. Con la nuova bottiglia in rPET i prezzi del packaging saranno più competitivi, più stabili, il prodotto più sostenibile e più innovativo, andando incontro anche alle esigenze rivendicate dai giovani in termini di tutela ambientale. La carenza di bottiglie in vetro, che ha afflitto la Francia negli ultimi anni, è stata innescata dal fermo dei forni a causa del Covid 19, ma è poi proseguita per la ridotta produzione generale, anche a seguito del costo improponibile, per alcune aziende, dell’energia. Resiste, tuttavia, un certo disappunto da parte dei consumatori di vino meno giovani al cambio del vetro come materia prima per le bottiglie, essendo convinti che il vetro sia, nel suo complesso, più sostenibile e circolare della plastica.
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