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https://www.rmix.it/ - Cosa Sta Succedendo alle Foreste Artiche a Causa dell'Inquinamento?
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Cosa Sta Succedendo alle Foreste Artiche a Causa dell'Inquinamento?
Ambiente

Cosa Sta Succedendo alle Foreste Artiche a Causa dell'Inquinamento?Abbiamo trattato in articoli precedente la devastante azione dell'uomo sullo sfruttamento della foresta amazzonica e sullo sfruttamento del legname nei boschi della Romania ma ora troviamo interessante proporre un articolo apparso su Science che informa della situazione delle foreste artiche russe a causa dell'inquinamento causato dalle attività industriali dell'uomo.Il dilagante inquinamento atmosferico nella Siberia settentrionale sta bloccando la luce solare e rallentando la crescita delle foreste boreali, suggerisce una nuova ricerca Il più grande studio sugli anelli degli alberi a Norilsk, la città più inquinata della Russia e la città più settentrionale del mondo, ha scoperto che l'inquinamento atmosferico da miniere e fonderie locali è almeno in parte responsabile di un fenomeno noto come "oscuramento artico". Simile all'``oscuramento globale '', questo effetto più regionale si verifica quando minuscole particelle - da inquinamento atmosferico, eruzioni vulcaniche e polvere - si raccolgono nell'atmosfera, dove assorbono o disperdono parzialmente l'energia solare, interferendo con la disponibilità di luce, l'evaporazione e l'idrologia. il terreno. Osservazioni a lungo termine e misurazioni satellitari hanno dimostrato che la quantità di radiazione solare che raggiunge la superficie dell'Artico è diminuita dalla metà del secolo, ma non era chiaro se ciò fosse dovuto all'inquinamento umano nella regione. Oggi, dopo quasi un secolo di attività mineraria pesante e non regolamentata, la morte degli alberi vicino a Norilsk si è estesa fino a 100 chilometri, ma questo è uno dei primi studi per collegare quella foresta in diminuzione con la luce solare ridotta. "Sebbene il problema delle emissioni di zolfo e del deperimento forestale sia stato affrontato con successo in gran parte dell'Europa, per la Siberia non siamo stati in grado di vedere quale sia stato l'impatto, in gran parte a causa della mancanza di dati di monitoraggio a lungo termine", afferma Ulf Büntgen, analista di sistemi ambientali dell'Università di Cambridge. Eppure, questa regione è una delle più fortemente inquinate al mondo. Quindi, leggendo migliaia di anelli di alberi di conifere vive e morte che circondano la città di Norilsk, i ricercatori hanno cercato di ricostruire quello che è successo a questa foresta un tempo incontaminata. Usando il legno e la chimica del suolo, hanno mappato l'entità della devastazione ambientale incontrollata di Norilsk nel corso di nove decenni. "Possiamo vedere che gli alberi vicino a Norilsk hanno iniziato a morire in maniera massiccia negli anni '60 a causa dell'aumento dei livelli di inquinamento", afferma Büntgen. Utilizzando la radiazione solare che raggiunge la superficie come proxy per l'inquinamento atmosferico, i modelli del team forniscono "una forte prova" che l'oscuramento artico ha sostanzialmente ridotto la crescita degli alberi dagli anni '70. Oggi, dicono gli autori, anche le foreste boreali in Eurasia e nel Nord America settentrionale sono diventate in gran parte una "discarica per grandi concentrazioni di inquinanti atmosferici di origine antropica", e quindi gli effetti dell'oscuramento artico potrebbero essere avvertiti in modo molto più ampio al di fuori della regione di Norilsk studiata qui . Sfortunatamente, a causa dei modelli di circolazione su larga scala, sappiamo che gli inquinanti tendono ad accumularsi nell'atmosfera artica, e questo significa che gli ecosistemi a nord possono essere particolarmente vulnerabili all'inquinamento globale nel suo complesso. Anche sapendo questo, gli autori non erano preparati per l'entità del problema che avevano scoperto. "Ciò che ci ha sorpreso è quanto siano diffusi gli effetti dell'inquinamento industriale: l'entità dei danni mostra quanto sia vulnerabile e sensibile la foresta boreale", afferma Büntgen. "Data l'importanza ecologica di questo bioma, i livelli di inquinamento nelle alte latitudini settentrionali potrebbero avere un enorme impatto sull'intero ciclo globale del carbonio". Né l'inquinamento è l'unica minaccia per questi preziosi ecosistemi, a volte descritti come "polmoni" per il nostro pianeta. Sembra che il cambiamento climatico stia anche alterando la diversità delle foreste boreali, mentre gli incendi più intensi e frequenti stanno spazzando via enormi aree della Siberia ogni anno, contribuendo a un ulteriore inquinamento atmosferico regionale. Mentre alcuni modelli di riscaldamento globale suggeriscono che la crescita degli alberi aumenterà con il cambiamento climatico, la nuova ricerca evidenzia che l'inquinamento atmosferico potrebbe superare questo, il che significa che gli alberi nel nord artico cresceranno più lentamente e più deboli di prima. Ulteriori ricerche dovrebbero esaminare come l'inquinamento atmosferico potrebbe portare a una riduzione della radiazione solare, assorbendo la radiazione solare direttamente o indirettamente attraverso i suoi effetti sulle nuvole. Considerata l'importanza di queste foreste boreali come pozzo di carbonio e quanto vulnerabili sembrano essere, gli autori chiedono ulteriori informazioni sugli effetti a lungo termine delle emissioni industriali sulle foreste più settentrionali del mondo. "Questo studio appare particolarmente opportuno alla luce del rilascio, senza precedenti a Norilsk di oltre 20.000 tonnellate di gasolio nel 2020", scrivono, "un disastro ambientale che sottolinea la minaccia del settore industriale di Norilsk sotto il rapido riscaldamento dell'Artico e lo scongelamento del permafrost, e sottolinea anche la vulnerabilità ecologica delle alte latitudini settentrionali ". Carly Cassella

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https://www.rmix.it/ - Rischi ambientali : come si muove la finanza
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Rischi ambientali : come si muove la finanza
Ambiente

La correlazione tra i rischi finanziari e i rischi ambientali visti dagli operatori bancari internazionali di Marco ArezioI problemi dell’ambiente e i relativi rischi ambientali, non sono, oggi, solo appannaggio di un gruppo sempre più ampio di giovani che manifestano nelle piazze e non sono solo occasione per il cosiddetto “green washing”, l’utilizzo a volte a sproposito dell’etichetta green sui prodotti da parte delle aziende, ma sono entrati prepotentemente nelle camere ovattate della finanza che conta. La questione del clima è diventata un problema di rischio finanziario, che coinvolge gli istituti bancari e il sistema finanziario internazionale, i quali dovranno confrontarsi con un nemico subdolo e potente. Non esiste un solo rischio ambientale, ma diversi elementi che potrebbero concatenarsi creando una problematica di difficile gestione a livello finanziario, tale per cui si potrebbero mettere in crisi i capitali in circolazione. I rischi ambientali che destano maggiore attenzione da parte delle istituzioni finanziarie possono essere elencati in: Incremento di gas serra Incremento delle precipitazioni Incremento delle siccità I rischi connessi a queste problematiche dipendono dal loro manifestarsi e dalla violenza con cui si presentano nelle aree geografiche del pianeta, ma si traducono in costi di vite umane, distruzione delle infrastrutture pubbliche e private, perdita di produttività con danni alla crescita economica e innalzamento dei prezzi dei beni primari. Questi costi incideranno direttamente sui valori degli assets, con un deterioramento della capacità delle imprese e delle famiglie di onorare i debiti e una riduzione del valore delle garanzie. Alle banche è affidato il compito di indirizzare i flussi finanziari verso attività che indirettamente riducano il rischio stesso e quindi verso iniziative di sostenibilità ambientale che possano mitigare gli effetti che causano i cambiamenti climatici. Questi finanziamenti sono necessari per la stabilità stesse delle banche. L’Europa avrebbe bisogno, per aggiornare le reti energetiche, migliorare la gestione dei rifiuti, delle risorse idriche, per modernizzare la rete dei trasporti e della logistica, di 270 miliardi di euro all’anno, cifre enormi che dovranno essere trovate perchè non ci sono alternative alla strada della sostenibilità ambientale. La maggior preoccupazione delle banche e degli investitori finanziari è il rischio nel deterioramento dei propri crediti e il valore dei loro attivi in relazione ai fattori climatici, che non sono di per sè rischi nuovi, ma che stanno diventando di proporzioni tali che potrebbero destabilizzare il ritorno finanziario delle operazioni. La comunità internazionale dal punto di vista politico si sta muovendo in ordine sparso, con diversi approcci tra gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina, la Russia, l’India, per citarne qualcuno, ma alla fine saranno le istituzioni finanziarie che influenzeranno le scelte di transizione energetica e di sostenibilità ambientale. In questo momento, però, non tutte le banche hanno compreso in pieno quale sia la strada corretta per l’elargizione dei capitali sul mercato industriale e quale ricadute si avranno, anche in termini di rischio sulle operazioni, rimanendo immobili sugli assets in portafoglio. Si possono vedere, per esempio, negli Stati Uniti, paese gestito da una politica ultra negazionista in termini ambientali, che i movimenti ambientalisti stanno manifestando contro banche, quali la JP Morgan, la Well Fargo, la Bank of America, le quali continuano a sostenere finanziariamente le società impegnate nell’estrazione e raffinazione del petrolio. Ma ci sono anche fondi di investimento internazionali, come il BlackRock, il più grande del mondo, che ha capito velocemente dove indirizzare il timone dei propri investimenti e, attraverso il presidente Larry Find, ha ribadito ai propri clienti e agli amministratori delegati delle società in cui il fondo è posizionato, che premierà le imprese e i progetti legati alla sostenibilità. Secondo Find, non solo i governi, ma anche le istituzioni finanziarie e le imprese potranno essere travolte se non si adotteranno misure efficaci a favore dell’ambiente. Quella di BlackRock non è una raccomandazione o un consiglio, ma una forte e univoca decisione che si potrebbe concretizzare attraverso l’opposizione nei consigli di amministrazione o la sfiducia a managers che non adotteranno misure concrete in fatto di sostenibilità climatica. Find vede il rischio ambientale colpire direttamente la solvibilità dei mutui, specialmente quelli sulla casa, sull’inflazione, se dovessero impennarsi i prezzi dei generi primari, sul rallentamento della crescita dei paesi emergenti e quindi a cascata su quella mondiale, causata della riduzione della produzione per l’aumento delle temperature.

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https://www.rmix.it/ - Shell non dovrà ridurre del 45% le emissioni: la Corte dell'Aja ribalta la sentenza
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Shell non dovrà ridurre del 45% le emissioni: la Corte dell'Aja ribalta la sentenza
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Il verdetto di appello annulla l'obbligo imposto a Shell di tagliare drasticamente le emissioni entro il 2030di Marco ArezioLa recente sentenza della Corte d'Appello dell'Aja ha avuto un impatto significativo nel panorama delle cause legali per la riduzione delle emissioni, ribaltando la decisione di primo grado che imponeva a Shell una riduzione del 45% delle emissioni di CO₂ entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019. Questa pronuncia rappresenta una svolta sia per l'industria dei combustibili fossili sia per i gruppi ambientalisti, evidenziando le difficoltà legali e scientifiche legate all'imposizione di obiettivi climatici specifici a singole aziende. La genesi del caso: il verdetto del 2021 e le richieste ambientaliste Nel 2021, il tribunale olandese aveva stabilito che Shell dovesse ridurre le proprie emissioni in tre aree chiave: le emissioni derivanti dalle operazioni interne, quelle associate all'energia utilizzata e quelle provenienti dalla catena di fornitura e dall'uso finale dei suoi prodotti. È importante notare che la maggior parte delle emissioni di Shell, circa il 90%, appartiene proprio a quest'ultima categoria, cioè alle emissioni prodotte dai clienti che consumano i combustibili forniti dall'azienda. La sentenza rappresentava una novità nel panorama giuridico, poiché si trattava di uno dei primi casi in cui una multinazionale veniva vincolata a un obiettivo di riduzione specifico a seguito di un’azione legale condotta da gruppi ambientalisti, tra cui Friends of the Earth Netherlands (Milieudefensie). La decisione della Corte d’Appello: motivazioni e implicazioni Il recente verdetto dell’Aja ha sollevato non poche polemiche. La Corte ha infatti annullato la sentenza di primo grado sostenendo che non esiste un consenso scientifico unanime su una percentuale di riduzione delle emissioni a cui una singola azienda dovrebbe attenersi. L’imposizione di un obiettivo specifico di riduzione a Shell, ha affermato la Corte, risulta inadeguata senza un accordo consolidato su parametri condivisi a livello globale. Un altro aspetto fondamentale della decisione riguarda l'efficacia pratica dell’obbligo imposto a Shell. La Corte ha osservato che anche se Shell smettesse di vendere combustibili fossili, altre aziende potrebbero facilmente colmare quel vuoto di mercato, risultando in un taglio complessivo delle emissioni poco significativo. Questa considerazione evidenzia come l'intero settore energetico, e non solo singole aziende, debba essere coinvolto per un’efficace transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio. Le reazioni degli attivisti e la posizione di Shell La decisione ha suscitato delusione tra gli attivisti, soprattutto alla vigilia della COP29 a Baku, dove le aspettative sulle nuove politiche climatiche sono basse. Donald Pols, direttore di Milieudefensie, ha definito il verdetto come “doloroso”, pur riconoscendo alcuni punti positivi. Ad esempio, la Corte ha comunque sottolineato che Shell ha una responsabilità individuale nel contribuire alla riduzione delle emissioni e ha messo in discussione la coerenza dell'esplorazione di nuovi giacimenti di petrolio e gas rispetto agli Accordi di Parigi. Pols ha comunque dichiarato che la battaglia legale non è conclusa e che potrebbe essere presentato un ulteriore ricorso alla Corte Suprema olandese. Dall’altra parte, l'amministratore delegato di Shell, Wael Sawan, ha accolto favorevolmente la decisione, dichiarando che essa rappresenta una scelta “giusta” sia per Shell sia per il settore energetico dei Paesi Bassi. Tuttavia, Sawan ha confermato che l'obiettivo di Shell rimane quello di diventare una compagnia a emissioni nette zero entro il 2050. Questo traguardo, secondo la compagnia, verrà raggiunto tramite investimenti significativi in progetti a basse emissioni di carbonio, con un impegno finanziario di 10-15 miliardi di dollari previsto tra il 2023 e il 2025. Shell e i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni A fronte della complessità e delle sfide legate agli impegni di riduzione, Shell ha deciso nel marzo scorso di rivedere i suoi obiettivi di taglio delle emissioni di CO₂, limitandosi a una riduzione tra il 15 e il 20% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2016. Questo approccio, basato sull'intensità netta di CO₂ (il rapporto tra le emissioni e l'energia prodotta), riflette una visione più pragmatica che si concentra sulla gradualità della transizione energetica, piuttosto che su riduzioni drastiche a breve termine. Un campanello d'allarme per le cause climatiche La sentenza dell’Aja rappresenta un precedente importante per le numerose cause legali avviate contro le aziende produttrici di combustibili fossili. Molte di queste azioni si basano sulla richiesta di responsabilità diretta delle aziende per il loro impatto climatico, ma il verdetto della Corte sottolinea i limiti di questo approccio quando applicato a singole imprese. La difficoltà di definire obiettivi specifici per ogni azienda, la mancanza di una chiara linea guida scientifica su percentuali di riduzione mirate, e l'interconnessione del mercato globale dei combustibili fossili evidenziano le sfide legate all'implementazione di politiche climatiche efficaci a livello aziendale. Conclusioni La sentenza della Corte d’Appello dell’Aja su Shell rappresenta un crocevia importante per le politiche climatiche aziendali e per le azioni legali che mirano a coinvolgere direttamente le aziende nella lotta al cambiamento climatico. Se da un lato il verdetto sembra rallentare le ambizioni dei gruppi ambientalisti, dall’altro sottolinea la necessità di un approccio sistemico che coinvolga sia i governi sia l'intera industria energetica. La questione di come conciliare la sostenibilità con le esigenze di un mercato globale richiederà soluzioni più articolate e concertate per garantire un'efficace transizione verso un'economia a basse emissioni. Per ora, il caso Shell evidenzia il complesso equilibrio tra responsabilità aziendali e obiettivi globali, e suggerisce che la strada verso un mondo a basse emissioni richiederà un impegno e una cooperazione che vanno oltre le singole cause legali.© Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - Quando l'Esperienza Non Basta: La Tragedia delle Grandes Jorasses e i Limiti dell'Alpinismo
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Quando l'Esperienza Non Basta: La Tragedia delle Grandes Jorasses e i Limiti dell'Alpinismo
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La recente perdita di due alpinisti esperti sulle Grandes Jorasses evidenzia i pericoli dell'alta montagna, dove l'abilità e la preparazione incontrano i limiti imposti della natura e dai cambiamenti climaticidi Marco ArezioLa recente tragedia sulle Grandes Jorasses, con la morte di due alpinisti esperti, richiama dolorosamente all’attenzione i rischi e i limiti di un’attività che, seppur regolata da norme e supportata da una lunga esperienza individuale, rimane legata alla forza e imprevedibilità della natura. È un caso che lascia un senso di perdita e smarrimento, evidenziando come, in montagna, neppure l’esperienza più lunga e consolidata sia una garanzia di sicurezza. Un Richiamo all’Ineluttabilità della Natura Le Grandes Jorasses, imponenti, remote e pericolose, rappresentano da sempre una sfida per gli alpinisti di ogni livello. Situate nel massiccio del Monte Bianco, queste pareti innevate e ghiacciate costituiscono uno dei percorsi più ambiti, ma anche tra i più ostili. Nonostante il costante sviluppo di tecnologie e metodologie di arrampicata sempre più avanzate, la montagna resta un luogo dove la forza della natura prevale. La lezione è amara, ma chiara: la natura non si lascia dominare completamente, nemmeno dagli alpinisti più preparati. Le condizioni meteo, i mutamenti del ghiaccio e della neve, e persino il deterioramento del manto montano a causa dei cambiamenti climatici rendono l’ambiente alpino un territorio di pericolo latente. La Preparazione e i Suoi Limiti L’esperienza è una componente cruciale per chi si avventura in alta montagna: conoscere le tecniche, i punti critici e saper leggere i segnali ambientali sono competenze essenziali. Tuttavia, questa tragedia dimostra che anche i più preparati possono essere colti di sorpresa da eventi imprevedibili. Il percorso di formazione degli alpinisti richiede anni di apprendimento sul campo e di conoscenza teorica, ma di fronte a circostanze estreme come slavine, crolli di ghiaccio o cambiamenti climatici repentini, la preparazione non può sempre garantire la sopravvivenza. Inoltre, l’accumularsi di esperienze positive può dare luogo a un falso senso di sicurezza. Questo non è un caso di imprudenza, ma piuttosto un fenomeno che, spesso inconsapevolmente, porta gli alpinisti più navigati a sentirsi in grado di affrontare situazioni al limite della resistenza umana. È una dinamica complessa e rischiosa, in cui l’esperienza, anziché ridurre i rischi, può a volte amplificarli attraverso un’illusoria sensazione di controllo. Il Fattore Psicologico: Tra Resilienza e Sfiducia L’alpinismo è un’attività che esige non solo competenze tecniche, ma anche una profonda forza psicologica. La resilienza, la capacità di affrontare l’incertezza e il pericolo, è una qualità imprescindibile per chi pratica questa disciplina. Tuttavia, è anche vero che la montagna, con le sue sfide e pericoli, richiede agli alpinisti una continua revisione delle proprie scelte, una sorta di dialogo interiore tra ciò che si conosce e ciò che si teme. In condizioni di rischio estremo, mantenere la calma e prendere decisioni lucide è essenziale. Tuttavia, quando si fronteggia una forza naturale così possente, il carico psicologico può diventare insostenibile. La sfiducia verso la propria capacità di sopravvivenza e il senso di impotenza che può cogliere l’alpinista in situazioni critiche aggiungono un ulteriore livello di difficoltà a un ambiente già ostile di per sé. L’Influenza dei Cambiamenti Climatici Un ulteriore aspetto che rende oggi l’alpinismo più rischioso riguarda l’impatto dei cambiamenti climatici sulle montagne. Le temperature in aumento hanno effetti significativi sul ghiaccio e sulla neve, che si sciolgono a velocità superiori rispetto al passato, causando crolli improvvisi e destabilizzando il manto nevoso. Le formazioni glaciali delle Grandes Jorasses, come di altre catene montuose, sono ormai soggette a variazioni repentine e imprevedibili che rappresentano una minaccia concreta per gli alpinisti. Inoltre, i cambiamenti climatici stanno alterando anche i ritmi stagionali e le condizioni meteorologiche, rendendo più difficile prevedere quando sarà sicuro affrontare una scalata. Ciò richiede agli alpinisti di adattarsi a un ambiente che muta costantemente, aumentando i margini di incertezza e il rischio complessivo. Il Senso della Tragedia: una Lezione per Tutti Questa tragedia riporta a riflettere su cosa significhi realmente avventurarsi in montagna. Più che un’esperienza sportiva o un esercizio di sfida fisica, l’alpinismo è un confronto intimo e sincero con la natura e, al contempo, con i propri limiti. La morte di alpinisti esperti sulle Grandes Jorasses è un monito per tutti coloro che vedono nella montagna un luogo di scoperta e di elevazione spirituale: il rispetto per la natura e la consapevolezza del rischio devono sempre guidare chiunque decida di mettersi in cammino verso una vetta. In ultima analisi, il senso di questa tragedia risiede nella comprensione della fragilità umana di fronte alle forze della natura. La montagna, con le sue bellezze e i suoi pericoli, ci ricorda costantemente che non siamo invincibili e che ogni avventura comporta un rischio che deve essere accettato con umiltà.© Riproduzione VietataFoto Wikimedia

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https://www.rmix.it/ - In Europa il Carbone Uccide due Persone all'Ora
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare In Europa il Carbone Uccide due Persone all'Ora
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Il combustibile plastico "End of Wast" è la soluzione al carbone? di Marco ArezioIl fumo che esce dalle ciminiere delle centrali elettriche alimentate a carbone, in Europa, ucciderebbe più di due persona l'ora secondo il rapporto "Silent Killers" Uno studio realizzato dall'università si Stoccarda, sulla base di una ricerca fatta, evidenzia gli impatti sanitari dell'inquinamento prodotto dall'utilizzo del carbone quale combustibile per produrre energia elettrica in Europa, evidenziando un numero pari a 22.300 morti premature, su base annua, che corrispondono alla perdita di 240.000 anni di vita. Inoltre le malattie legate all'inquinamento dell'aria prodotto dalle centrali a carbone, determinano una perdita di giornate lavorative pari a 5 milioni. Secondo questo studio, che ha analizzato anche i progetti per la realizzazione di 52 nuove centrali a carbone, progetti che sono in fase di realizzazione o di autorizzazione, l'impatto sulla salute se entrassero in funzione queste nuove centrali, corrisponderebbe alla perdita di ulteriori 32.000 anni di vita ogni anno. Tenendo in considerazione che la vita media di una centrale a carbone è normalmente di 40 anni, in prospettiva questi nuovi progetti porterebbero alla perdita di 1,3 milioni di anni di vita. L'università si Stoccarda, attraverso questo studio, ha riaffermato che il carbone pulito non esiste, e che questo tipo di combustibile è una delle principali cause di avvelenamento dell'aria. In Europa esistono circa 300 centrali a carbone funzionanti, le quali producono un quarto dell'energia elettrica consumata nell'unione, ma, nello stesso tempo, producono il 70% degli ossidi di zolfo e più del 40% degli ossidi di azoto provenienti dal settore elettrico. Queste centrali Europee sono la fonte di circa la metà di tutte le emissioni industriali di mercurio e un terzo di quelle di arsenico, ed emettono, infine, quasi un quarto del totale delle emissioni di CO2 di tutta l'Europa. In termini sanitari, i paesi maggiormente colpiti dalle emissioni inquinanti del carbone sono la Polonia (più di 5000 morti all'anno), la Germania, la Romania e la Bulgaria. Ma come potrebbe essere attenuato questo fenomeno doppiamente negativo, sia sotto l'aspetto dell'impatto sulla salute sia sotto l'aspetto della distruzione delle risorse ambientali? Un'alternativa che è presa in considerazione, ma forse non con le dovute attenzioni, è il combustibile che deriva dallo scarto di lavorazione dei rifiuti plastici e urbani, detto "End of wast". Questo deriva appunto dalla lavorazione dei rifiuti civili non pericolosi e dei rifiuti speciali non pericolosi e si presenta sotto forma di macinato sfuso o in balle pressate. Il processo di lavorazione comprende: Triturazione del materialeAsportazioni delle parti metalliche attraverso separatori elettromagnetici e anche delle parti metalliche non ferroseDeumidificazioneAsportazioni delle frazioni inertiPalletizzazione in base alle esigenze degli impianti L'alto contenuto della componente plastica all'interno della ricetta permette il raggiungimento di un potere calorifico, molto importante. Il combustibile "end of waste" viene normalmente impiegato: CementificiInceneritoriCentrali termoeletticheImpianti di gassificazioneCentrali termiche per teleriscaldamento Questo combustibile può essere usato in impianti dedicati oppure in impianti che utilizzano normalmente altri tipi di combustibili, ma, in entrambi i casi, la struttura industriale deve dotarsi di tecnologie di combustione e depurazione dei fumi in grado di abbattere gli inquinanti emessi. Un caso particolare, che vedremo successivamente, riguarda l'utilizzo del combustibile "End of West" nelle cementerie in quanto c'è una corrente di pensiero che sostiene che i tradizionali forni per la produzione del clinker non siano in grado di evitare emissioni in atmosfera dannose.Vedi maggiori informazioni

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https://www.rmix.it/ - European green deal: dove sta andando l’europa?
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare European green deal: dove sta andando l’europa?
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Ursula Von der Leyen sola dopo il fallimento della Cop25 a Madrid Il presidente della commissione Europea, Ursula Von der Leyen, dopo il fallimento dell’assemblea dei principali paesi del mondo, che si sono riuniti a Madrid per discutere della drammatica situazione ambientale, nella speranza di accelerare sul raggiungimento degli obbiettivi di Parigi, si è trovata decisamente sola. Per varie ragioni, come descritto nelle pagine NEWS del portale qualche giorno fà, i maggiori inquinatori del nostro pianeta come gli Stati Uniti, la Cina, il Brasile, l’India e la Russia non solo non hanno dato diponibilità per rispettare i limiti ambientali stabiliti in precedenza ma, alcuni di essi, hanno addirittura chiesto di uscire dall’accordo di Parigi. Il sentimento condiviso da questi paesi è quello di essere libero di produrre e inquinare a loro piacimento, senza necessità di sottomettersi a regole e controlli stringenti, con la conseguenza di diventare più competitivi commercialmente sul mercato rispetto a quei paesi che rispettano le normative ambientali. Sembrerebbe sia stata una grande delusione, prima di tutto politica, da parte dell’Unione Europea, che si trova a portare avanti da sola questa battaglia sulla salvaguardia del pianeta. Ma nonostante gli insuccessi di Madrid il presidente della commissione Europea ha deciso di continuare la sua lotta verso i cambiamenti climatici e all’inquinamento, varando il programma “European Green Deal” che esprime la volontà comunitaria di far diventare l’Europa il primo continente ad impatto zero entro il 2050. Attraverso nuove proposte legislative e cospicui finanziamenti comunitari che il presidente vuole mettere in campo, entro due anni, si vuole arrivare al controllo delle emissioni, alla creazione di un mercato verde, anche nel campo lavorativo e spingere sull’innovazione, punto dolente rispetto a nazioni come Cina e USA. La nuova politica comunitaria toccherà diversi settori: l’agricoltura, l’industria, l’energia, la tecnologia, i trasporti e la chimica. Ci sono ancora alcuni paesi comunitari che sono contrari o scettici al nuovo programma, specialmente quelli dell’est, legati a doppio filo al carbone per la produzione di energia elettrica. Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria vorrebbero un rinvio della partenza del piano per avere più tempo per poter convertire i propri impianti dal carbone ad una fonte energetica più pulita. Sicuramente il piano è ambizioso e impegnativo, in quanto coinvolge non solo l’adeguamento tecnologico di sistemi produttivi di energia obsoleti ed inquinanti, come il carbone, ma anche il reperimento di risorse economiche enormi, circa 100 miliardi l’anno, da investire per aiutare i paesi dell’EST al raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050. Risorse che oggi non sono facili da reperire tra i paesi della comunità Europea. Ma c’è anche un aspetto importante da tenere presente, che riguarda lo svantaggio commerciale dei prodotti realizzati all’interno del mercato Europeo, governato dalle stringenti norme ambientali, rispetto a paesi che hanno la facoltà di derogare a questi impegni, diventando quindi più competitivi dal punto di vista commerciale. Per far fronte a questo problema si sta pensando ad un ritorno dell’investimento pubblico in settori strategici come quello tecnologico, industriale e dell’energia. Questo potrebbe servire per diminuire il differenziale tra il costo di produzione Europeo e quello di altri paesi che producono energia da fonti fossili. Tuttavia l’investimento pubblico non è l’unico pensiero che ha Bruxelles per aiutare le imprese Europee a rimanere competitive nelle esportazioni, ma sta pensando anche ad una sorta di “Carbon Tax”, una tassa per gli inquinatori, rivolta alle merci di quei paesi che producono ed esportano i loro beni, utilizzando energia non verde, quindi meno cara e più inquinante. A catena, si potrebbero aggregare idee circa il blocco dell’accordo di libero scambio dei beni tra l’Europa e il Mercosur, colpendo il commercio della carne Brasiliana, in quanto il presidente del Brasile, Bolsonaro, è ritenuto responsabile della deforestazione dell’Amazzonia, con tutte le conseguenze ambientali relative. Le intenzioni sono buone, ma il processo di compimento del nuovo piano verde comporta molta politica e molti soldi, due cose da prendere con le pinze.

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https://www.rmix.it/ - Plastic Free? Il Paradosso dell'Inquinamento da Plastica
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Plastic Free? Il Paradosso dell'Inquinamento da Plastica
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Plastic Free: Una situazione incredibiledi Marco Arezio Il paradosso dell'inquinamento da plastica è che non c'è abbastanza plastica riciclata sul mercato. Pensaci. I movimenti popolari hanno aumentato la domanda di materie prime rigenerate per produrre imballaggi ecologici. I produttori di granuli e macinati riciclati non sono più in grado di soddisfare le esigenze delle industrie dell'imballaggio poiché la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti di plastica sono di gran lunga inferiori alle richieste. La raccolta differenziata e il suo riciclaggio producono troppo poco materiale rispetto a quello che sarebbe necessario e quindi i rifiuti in plastica da riciclare sono lì ma finiscono principalmente nelle discariche o nell'ambiente. Una situazione incredibile.

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https://www.rmix.it/ - Temperature record e anomalie climatiche: cosa ci attende nei prossimi 3 anni e come possiamo difenderci
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Temperature record e anomalie climatiche: cosa ci attende nei prossimi 3 anni e come possiamo difenderci
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L’aumento delle temperature globali e la crescita delle anomalie climatiche stanno cambiando il volto del pianeta. Cosa succederà nei prossimi 3 anni?di Marco ArezioNegli ultimi anni, le cronache internazionali sono state scandite da notizie di temperature record, siccità prolungate, inondazioni improvvise, ondate di calore, uragani fuori stagione e gelo inaspettato. Questi eventi, un tempo considerati eccezionali, stanno diventando la nuova normalità. Ma perché avvengono queste anomalie climatiche? Quali sono le previsioni per i prossimi tre anni e come possiamo, concretamente, difenderci e adattarci a uno scenario che pare sempre più complesso e imprevedibile? Il quadro attuale: dati e segnali di allarme Il 2023 e il 2024 sono stati due degli anni più caldi mai registrati da quando esistono rilevazioni sistematiche. Secondo i dati di Copernicus, NOAA e IPCC, la temperatura media globale della superficie terrestre ha superato, per più mesi consecutivi, la soglia simbolica di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Non si tratta di una semplice statistica: ogni decimo di grado in più moltiplica la frequenza e l’intensità di eventi climatici estremi. Tra le anomalie più significative degli ultimi dodici mesi si segnalano l’aumento della temperatura superficiale degli oceani (che, a sua volta, amplifica tempeste e uragani), la riduzione dei ghiacci artici e antartici, periodi di siccità straordinaria alternati a piogge torrenziali, l’anticipo della primavera e la durata prolungata delle ondate di calore estivo. Fenomeni che interessano ormai tutto il pianeta, senza distinzioni tra Nord e Sud del mondo. Le cause delle anomalie climatiche: tra cicli naturali e attività antropiche Per comprendere perché si verificano queste anomalie, è necessario distinguere tra i cicli naturali della Terra e l’effetto delle attività umane. Da una parte, il clima terrestre ha sempre conosciuto oscillazioni cicliche dovute a fattori astronomici (come la variazione dell’asse terrestre, i cicli solari, le correnti oceaniche tipo El Niño e La Niña). Dall’altra, dagli anni ’50 del Novecento, l’accumulo di gas serra prodotti dalla combustione di combustibili fossili, deforestazione, agricoltura intensiva e urbanizzazione, ha innalzato in modo anomalo la concentrazione di CO₂ e metano nell’atmosfera. Secondo la quasi totalità della comunità scientifica, il “forcing” antropico – cioè la spinta aggiuntiva esercitata dalle attività umane – ha ormai superato la variabilità naturale. I modelli climatici più avanzati dimostrano che, senza un rapido cambio di rotta, i prossimi anni vedranno un’ulteriore accelerazione delle temperature medie, con effetti a cascata su tutti gli ecosistemi. Cosa aspettarci nei prossimi 3 anni? Scenari probabili secondo la scienza Le previsioni climatiche non sono oroscopi, ma strumenti statistici basati su milioni di dati raccolti in tutto il mondo. I principali centri di ricerca (come il CMCC, il Met Office britannico, la NASA e l’IPCC) concordano su alcuni punti: Aumento della frequenza e intensità delle ondate di calore: L’Europa meridionale, l’Asia sud-occidentale e l’America settentrionale saranno particolarmente esposte. Nei mesi estivi, le temperature massime potranno superare di 3-5°C i valori medi del periodo 1991-2020, con effetti sulla salute pubblica, l’agricoltura e l’energia. Piogge torrenziali e alluvioni lampo: L’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo, che si traduce in piogge più intense, spesso concentrate in poche ore. Le aree urbane e costiere sono ad alto rischio di danni e interruzioni infrastrutturali. Siccità più lunghe e diffuse: In vaste zone del Mediterraneo, dell’Africa subsahariana e delle Americhe, la combinazione tra alte temperature e scarse precipitazioni causerà siccità più prolungate, con crisi idriche sempre più frequenti. Impatto sulla biodiversità: I cambiamenti rapidi non consentono a molte specie animali e vegetali di adattarsi. L’incremento di fenomeni estremi mette a rischio la produzione agricola, la sicurezza alimentare e la salute degli ecosistemi. Effetti sui ghiacciai e sull’innalzamento del mare: L’accelerazione della fusione dei ghiacciai alpini, artici e antartici proseguirà, con un conseguente aumento del livello medio del mare e rischi per città costiere e delta fluviali. Incertezza legata a feedback e tipping points: Alcuni processi, come il rilascio di metano dal permafrost o il collasso delle correnti oceaniche, potrebbero innescare cambiamenti bruschi e difficilmente reversibili, la cui tempistica è ancora incerta. Come difendersi? Strategie di adattamento e mitigazione Di fronte a scenari così articolati, le strategie di difesa devono essere multilivello e integrate, coinvolgendo cittadini, imprese, amministrazioni pubbliche e ricerca scientifica. Ecco alcune delle principali azioni concrete per prepararsi e adattarsi: 1. Pianificazione urbana e territoriale “climate proof” Le città dovranno investire in infrastrutture resilienti: sistemi di drenaggio avanzati, riforestazione urbana, tetti verdi e materiali riflettenti che abbassano la temperatura degli edifici, reti di allerta per alluvioni e ondate di calore. È necessario favorire la permeabilità del suolo per ridurre il rischio di allagamenti e ripensare la mobilità pubblica in ottica sostenibile. 2. Gestione delle risorse idriche La siccità richiede nuove strategie di raccolta, riciclo e risparmio dell’acqua: reti idriche intelligenti, sistemi di irrigazione di precisione in agricoltura, recupero delle acque grigie e investimenti in desalinizzazione nelle aree costiere più esposte. 3. Protezione della salute pubblica Sistemi sanitari e protezione civile dovranno potenziare i piani di prevenzione per le fasce di popolazione più vulnerabili: anziani, bambini, persone con malattie croniche. Le ondate di calore dovranno essere gestite con campagne di informazione, reti di supporto e monitoraggio continuo delle condizioni ambientali. 4. Adattamento in agricoltura e sicurezza alimentare Le colture dovranno essere selezionate per la resistenza alla siccità e al calore. L’agricoltura di precisione, l’uso di dati climatici in tempo reale, l’introduzione di varietà più resilienti e la diversificazione produttiva saranno fondamentali per garantire la sicurezza alimentare nei prossimi anni. 5. Innovazione e ricerca tecnologica La transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio è indispensabile. L’adozione di energie rinnovabili, la diffusione di sistemi di accumulo, il miglioramento dell’efficienza energetica e lo sviluppo di tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS) rappresentano alcune delle principali soluzioni. 6. Educazione, consapevolezza e coinvolgimento sociale Le comunità devono essere sensibilizzate sull’importanza dei comportamenti individuali e collettivi: dalla riduzione degli sprechi energetici all’adozione di stili di vita più sostenibili, fino alla richiesta di politiche climatiche ambiziose da parte dei governi. La sfida dei prossimi anni: adattarsi senza rinunciare alla mitigazione Il punto cruciale è che, pur adottando tutte le strategie di adattamento possibili, non possiamo rinunciare agli sforzi di mitigazione delle emissioni. La finestra temporale per evitare i peggiori scenari climatici si sta rapidamente chiudendo. Ogni scelta individuale, aziendale o politica che riduce la pressione sull’ambiente contribuisce a rendere meno drammatici gli impatti nei prossimi tre anni – e soprattutto nel lungo periodo. La scienza ci offre conoscenza, scenari e strumenti. Sta a noi, collettivamente, decidere come agire. Le temperature record e le anomalie climatiche non sono un destino ineluttabile, ma la conseguenza di decisioni (o omissioni) che possiamo ancora indirizzare. Prepararsi, adattarsi, innovare e cambiare abitudini è l’unico modo per trasformare la crisi climatica in un’opportunità di progresso e resilienza.© Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - Il Futuro della Cattura e Stoccaggio dell'Anidride Carbonica: Investimenti, Attori e Opportunità in Europa
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Il Futuro della Cattura e Stoccaggio dell'Anidride Carbonica: Investimenti, Attori e Opportunità in Europa
Ambiente

Come la CCS sta Rivoluzionando la Transizione Energetica: Progetti, Tecnologie e il Ruolo di Eni e Altri Leader di Settoredi Marco ArezioIl business della cattura e dello stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS, Carbon Capture and Storage) rappresenta una delle tecnologie più avanzate e promettenti nella lotta al cambiamento climatico. L'aumento delle pressioni normative e sociali per ridurre le emissioni di CO₂ ha spinto governi, aziende e istituzioni finanziarie a investire massicciamente in queste soluzioni innovative. Secondo le proiezioni, il mercato globale del CCS è destinato a superare i 50 miliardi di euro entro il 2030. In questo contesto, l’Europa emerge come un epicentro di sviluppo tecnologico e di implementazione grazie a progetti pionieristici e partnership pubblico-private che mirano a integrare il CCS nelle strategie di decarbonizzazione di lungo termine. Come funzionano i servizi di CCS La tecnologia CCS si basa su tre fasi principali: cattura, trasporto e stoccaggio della CO₂. Cattura della CO₂ La cattura avviene principalmente presso impianti industriali e centrali elettriche, dove la CO₂ viene separata dagli altri gas emessi. Le tecniche principali includono: - Cattura post-combustione: separazione della CO₂ dai fumi industriali. - Cattura pre-combustione: rimozione del carbonio prima della combustione. - Direct Air Capture (DAC): cattura diretta dall’aria tramite filtri chimici. Tecnologie come quelle sviluppate da Climeworks e Carbon Engineering stanno accelerando l’efficienza e la scalabilità della cattura diretta dell’anidride carbonica. Trasporto del CO₂ Una volta catturata, la CO₂ viene compressa e trasportata tramite pipeline o navi verso siti di stoccaggio. La rete infrastrutturale è fondamentale per connettere le fonti di emissioni ai siti di stoccaggio. Progetti come Northern Lights, sviluppati da Equinor, TotalEnergies e Shell, prevedono una rete transfrontaliera per gestire il trasporto sicuro della CO₂ catturata in diversi paesi europei. Questo approccio consente di ridurre i costi complessivi e ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture esistenti. Stoccaggio della CO₂ La CO₂ viene iniettata in formazioni geologiche profonde, come giacimenti esauriti di petrolio e gas o acquiferi salini. Queste formazioni naturali sono scelte per le loro caratteristiche di impermeabilità, che impediscono la fuoriuscita del gas una volta immagazzinato. Prima dell'iniezione, vengono condotti studi dettagliati di caratterizzazione geologica, utilizzando tecniche come la sismica 3D e analisi di laboratorio sui campioni di roccia, per garantire che il sito sia idoneo e sicuro. Una volta iniettata, la CO₂ è sottoposta a pressioni elevate che ne favoriscono la mineralizzazione nel tempo, un processo naturale che contribuisce alla sua stabilità. Il monitoraggio continuo tramite sensori geofisici e chimici, integrati da sistemi satellitari, assicura che non vi siano fughe e che il gas rimanga intrappolato in profondità per centinaia o migliaia di anni. Oltre alla cattura e stoccaggio, alcuni attori offrono servizi integrati, come il monitoraggio delle emissioni e la consulenza per migliorare l’efficienza dei processi industriali. Questo approccio olistico sta rendendo il settore sempre più appetibile per le aziende che cercano di ridurre la propria impronta di carbonio. Gli attori principali in Europa In Europa, il mercato CCS vede la partecipazione di grandi aziende energetiche, startup innovative e istituzioni pubbliche. Tra i principali protagonisti troviamo: Equinor: L’azienda norvegese è leader nei progetti CCS, con iniziative come Northern Lights, che punta a creare un'infrastruttura europea per lo stoccaggio della CO₂. Shell: Coinvolta in progetti come Porthos nei Paesi Bassi, Shell sta investendo significativamente in tecnologie di cattura e stoccaggio per supportare la transizione energetica. TotalEnergies: Attiva con progetti CCS in Francia e nel Regno Unito, TotalEnergies mira a integrare queste tecnologie nelle proprie operazioni industriali. Eni: Attraverso i progetti Plenitude e Enilive, Eni sta sviluppando soluzioni avanzate di CCS per ridurre le emissioni nelle operazioni petrolifere e industriali, con particolare attenzione ai giacimenti di stoccaggio nel Mar Adriatico. Start-up tecnologiche: Aziende come Climeworks (Svizzera) stanno sviluppando soluzioni di direct air capture (DAC), che catturano la CO₂ direttamente dall’aria. Anche le istituzioni pubbliche giocano un ruolo cruciale. La Commissione Europea ha finanziato diversi progetti CCS attraverso il Fondo per l’Innovazione e il programma Horizon Europe, incentivando lo sviluppo di nuove tecnologie. Quanto è sostenibile a livello di business il CCS La sostenibilità economica della cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica è al centro di molti dibattiti, poiché le tecnologie CCS, pur rappresentando una risposta efficace alla crisi climatica, comportano costi elevati. Tuttavia, l’integrazione di queste soluzioni nei modelli di business di grandi aziende energetiche e industriali dimostra il loro potenziale economico. Performance delle società coinvolte Le aziende che operano nel settore CCS stanno registrando una crescita significativa, grazie alla crescente domanda di soluzioni per la decarbonizzazione e agli incentivi governativi. Per esempio: Equinor ha registrato un aumento degli investimenti in progetti CCS, con una percentuale crescente del suo bilancio destinata alle tecnologie sostenibili. I loro progetti pionieristici, come Northern Lights, hanno attirato finanziamenti sia pubblici che privati. Shell sta sviluppando una strategia integrata per il CCS, che combina il trasporto e lo stoccaggio della CO₂ con l’ottimizzazione dei processi industriali. Il progetto Porthos nei Paesi Bassi ha già assicurato contratti di lungo termine con grandi aziende europee. Eni, attraverso Plenitude ed Enilive, sta diversificando il proprio portafoglio per includere soluzioni CCS, ottenendo una posizione competitiva nel mercato europeo. La società ha anche iniziato a esplorare l'utilizzo della CO₂ per la produzione di nuovi materiali industriali. Climeworks, pur essendo una startup, ha dimostrato che il direct air capture può diventare redditizio grazie a partnership con aziende che cercano di compensare le proprie emissioni. Modelli di business emergenti Le società coinvolte stanno adottando modelli di business innovativi per migliorare la sostenibilità economica del CCS: Contratti a lungo termine: Aziende come Shell ed Equinor offrono contratti pluriennali ai loro clienti, garantendo un flusso costante di entrate e mitigando i rischi associati agli investimenti iniziali elevati. Partnership pubblico-private: I governi offrono finanziamenti iniziali e agevolazioni fiscali per ridurre i costi, mentre le aziende forniscono le competenze tecniche e le infrastrutture necessarie. I margini di crescita e le sfide Nonostante il settore CCS offra grandi opportunità, esistono ancora alcune problematiche. Tra queste, i costi elevati delle tecnologie e la necessità di un quadro normativo stabile e incentivante. Tuttavia, i margini di crescita sono enormi, grazie a: Aumenti della carbon tax: L’introduzione di tasse sulle emissioni di CO₂ sta spingendo molte aziende a investire nel CCS per evitare costi aggiuntivi. Sostegno politico: I governi europei stanno introducendo incentivi fiscali e finanziamenti diretti per accelerare l’adozione del CCS. Innovazione tecnologica: Le startup stanno sviluppando tecnologie più economiche ed efficienti, rendendo il CCS accessibile a un numero crescente di aziende. Nuove opportunità commerciali: L’utilizzo della CO₂ catturata (CCU, Carbon Capture and Utilization) in settori come la produzione di combustibili sintetici e materiali edili sta aprendo nuovi mercati. In aggiunta, la combinazione di CCS con tecnologie come l’idrogeno verde o blu potrebbe creare sinergie che accelerano ulteriormente la decarbonizzazione dell’economia europea. Conclusioni Il settore della cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica rappresenta una delle frontiere più promettenti nella lotta contro il cambiamento climatico. Con attori di primo piano come Eni, Equinor e Shell, e il supporto di startup innovative, l’Europa si trova in una posizione strategica per guidare questa transizione. Sebbene le sfide non manchino, i crescenti investimenti e l’innovazione tecnologica stanno trasformando il CCS in un pilastro fondamentale per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica entro il 2050. © Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - L'Effetto Stau: Il Potente Impatto delle Catene Montuose sul Clima Europeo
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Ambiente

Come il sollevamento orografico trasforma i venti umidi in precipitazioni estreme: analisi del fenomeno e degli episodi storici nelle regioni montuose d'Europadi Marco ArezioL’effetto Stau è un fenomeno meteorologico che si manifesta principalmente in aree montuose ed è causato dall'interazione tra il flusso dell'aria e le catene montuose. Si verifica quando masse d'aria umida, in movimento orizzontale, vengono costrette a risalire il versante sopravvento di una montagna o di una catena montuosa. Questa risalita causa un raffreddamento dell'aria per espansione adiabatica, con la conseguente condensazione del vapore acqueo e la formazione di nubi. In condizioni favorevoli, questo processo può portare a intense precipitazioni, spesso di lunga durata, concentrate sulla zona sopravvento della catena montuosa. Processo Meteorologico dell'Effetto Stau L'effetto Stau è strettamente legato ai principi fisici che regolano il comportamento delle masse d'aria umida in presenza di barriere orografiche, ovvero le montagne. Quando una massa d'aria incontra un rilievo montuoso, viene obbligata a sollevarsi. Durante la risalita, l'aria si espande e si raffredda, poiché la pressione atmosferica diminuisce con l'altitudine. Quando la temperatura scende al punto di rugiada, il vapore acqueo contenuto nell'aria si condensa, formando nuvole. Se il processo continua, queste nuvole possono diventare nubi di grande sviluppo verticale, come cumulonembi, che danno origine a precipitazioni abbondanti, talvolta anche intense. Questo fenomeno è più evidente quando una massa d'aria umida proviene da zone oceaniche o marittime e viene spinta da venti dominanti contro una catena montuosa. Le condizioni atmosferiche più favorevoli all'effetto Stau includono: Elevata umidità dell'aria: Maggiore è la quantità di vapore acqueo contenuto nella massa d'aria, più intensi saranno i fenomeni di condensazione. Forte gradiente di temperatura verticale: Un'aria più calda alla base e più fredda in quota favorisce il sollevamento dell'aria. Flussi di aria persistenti: Se il vento che spinge l'aria verso il rilievo è costante e prolungato, l'effetto Stau può durare per diverse ore o giorni. Sul versante opposto della montagna, detto sottovento o "ombra pluviometrica", si ha generalmente una situazione opposta: l'aria discende, si riscalda e si asciuga, riducendo la probabilità di precipitazioni. Questo fenomeno è chiamato effetto Föhn ed è complementare all'effetto Stau. Zone d'Europa Maggiormente Interessate In Europa, l'effetto Stau si verifica più frequentemente nelle regioni dove il flusso dell'aria incontra catene montuose, soprattutto in presenza di venti dominanti da ovest o da sud-ovest che trasportano aria umida proveniente dall'oceano Atlantico o dal Mediterraneo. Tra le principali aree soggette a questo fenomeno, vi sono: Alpi: Le Alpi sono una delle principali barriere orografiche europee, e l'effetto Stau è molto comune soprattutto sul versante settentrionale (Alpi austriache, svizzere e bavaresi) e meridionale (Alpi italiane e francesi). I venti umidi provenienti dall'Atlantico o dal Mediterraneo causano spesso abbondanti precipitazioni in queste zone. Massiccio Centrale (Francia): Questa catena montuosa si trova a sud della Francia ed è soggetta a episodi di Stau quando venti umidi provenienti dall'Atlantico vengono spinti verso l'interno. Le regioni a nord del massiccio ricevono abbondanti precipitazioni, mentre a sud si forma l'effetto Föhn. Pirenei: Situati tra Francia e Spagna, i Pirenei sono frequentemente colpiti dall'effetto Stau quando venti umidi dall'oceano Atlantico settentrionale sono costretti a risalire il versante settentrionale, causando precipitazioni intense soprattutto in Francia. Appennini: Anche l'Italia centrale e meridionale vede episodi di effetto Stau, in particolare quando masse d'aria umida provenienti dal Tirreno sono costrette a risalire i versanti occidentali degli Appennini. Carpazi e Balcani: Le catene montuose nell'Europa orientale, come i Carpazi e i Balcani, sono influenzate dall'effetto Stau in presenza di venti umidi provenienti dal Mar Nero o dal Mediterraneo. Episodi Storici Significativi Nel corso della storia, l'effetto Stau ha causato numerosi episodi di precipitazioni estreme, in alcuni casi con impatti devastanti. Di seguito, alcuni degli eventi più significativi: Alluvione dell'Oktoberhochwasser, 1999 Questo evento si verificò a cavallo tra fine ottobre e inizio novembre del 1999 nelle Alpi svizzere e austriache. Il fenomeno fu causato da un intenso flusso di aria umida proveniente dall'Atlantico, che incontrò le Alpi e causò precipitazioni intense, con accumuli di pioggia superiori a 300 mm in alcune aree. Le abbondanti piogge portarono a inondazioni estese e frane, con danni significativi a infrastrutture e abitazioni. Alluvione dell'Alpi Carniche, 2003 Un altro episodio significativo si verificò nelle Alpi Carniche, al confine tra Italia e Austria, nell'estate del 2003. Un'intensa depressione atmosferica fece confluire masse d'aria umida sul versante meridionale delle Alpi. Questo effetto Stau causò piogge torrenziali che provocarono inondazioni improvvise e gravi danni a infrastrutture e terreni agricoli, con un impatto economico e ambientale devastante. Alluvione della Valle del Rodano, 2008 Nel 2008, un forte episodio di effetto Stau colpì il versante occidentale delle Alpi francesi, lungo la valle del Rodano. I venti provenienti dal Mediterraneo, carichi di umidità, causarono intense precipitazioni nelle Alpi francesi, in particolare nella regione di Grenoble. Le piogge, durate per diversi giorni, causarono estesi allagamenti e frane che isolarono diverse comunità alpine. Tempesta Vaia, 2018 La tempesta Vaia è un altro esempio di effetto Stau che si verificò nelle Dolomiti e nelle Alpi italiane. Durante questo evento, masse d'aria calda e umida provenienti dal Mediterraneo si scontrarono con le Alpi, causando precipitazioni straordinarie e venti fortissimi. L'effetto Stau intensificò le precipitazioni, con accumuli pluviometrici record in alcune aree. Le piogge persistenti e i venti causarono ingenti danni al patrimonio boschivo e all'ambiente naturale della zona, con impatti significativi anche su infrastrutture e abitazioni. Impatti e Conseguenze L’effetto Stau, quando si verifica in forma particolarmente intensa, può avere una serie di impatti rilevanti: Precipitazioni intense e inondazioni: L'aumento delle precipitazioni può causare inondazioni, frane e smottamenti, con conseguenze gravi per le infrastrutture, le abitazioni e l'agricoltura. Effetti sull'agricoltura: Le precipitazioni prolungate possono avere impatti negativi sui raccolti, soprattutto in regioni montuose, con l’allagamento dei terreni coltivati. Conseguenze economiche: I danni causati da eventi di precipitazione intensa associati all’effetto Stau possono essere significativi, sia in termini di riparazione delle infrastrutture sia di perdita di produttività agricola e turistica. Conclusione L’effetto Stau è un fenomeno naturale, ma con implicazioni significative per le aree montuose e le regioni circostanti. In Europa, è particolarmente rilevante nelle Alpi, nei Pirenei e in altre catene montuose, dove la combinazione di masse d'aria umida e venti dominanti può portare a eventi meteorologici estremi. La comprensione di questo fenomeno è cruciale per la previsione delle precipitazioni e la gestione del rischio di eventi estremi, soprattutto in un contesto di cambiamenti climatici che potrebbe rendere questi episodi più frequenti o intensi.© Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - Le Inchieste Ambientali del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi: Smascherare le Verità Nascoste della Crisi Ecologica
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Le Inchieste Ambientali del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi: Smascherare le Verità Nascoste della Crisi Ecologica
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Come l'ICIJ utilizza il giornalismo investigativo per rivelare gli abusi ambientali globali, dal traffico di rifiuti tossici alla deforestazione illegale, contribuendo a trasformare la lotta contro il cambiamento climaticodi Marco ArezioNegli ultimi decenni, il cambiamento climatico, la distruzione degli ecosistemi e l’inquinamento sono diventati temi centrali del dibattito globale. Di fronte all’aggravarsi della crisi ambientale, il ruolo dei media, e in particolare del giornalismo investigativo, è diventato cruciale per denunciare le pratiche dannose, l’inazione politica e le attività industriali che compromettono il futuro del pianeta. In questo contesto, il Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ) ha svolto un ruolo chiave nella divulgazione di inchieste complesse e di grande impatto, smascherando gli attori che alimentano la crisi ambientale. Cos'è l'ICIJ? L’ICIJ (International Consortium of Investigative Journalists) è un’organizzazione no-profit con sede negli Stati Uniti, fondata nel 1997 come parte del Center for Public Integrity, un altro gruppo giornalistico investigativo di fama. Oggi, l’ICIJ è un’entità indipendente che collega giornalisti e media di tutto il mondo con l'obiettivo di condurre inchieste transnazionali. Il consorzio lavora su questioni complesse che travalicano i confini nazionali e richiedono un’analisi approfondita e una collaborazione giornalistica globale. Tra i maggiori successi dell'ICIJ vi sono le inchieste finanziarie, come i Panama Papers e i Paradise Papers, ma l’organizzazione ha anche rivolto un’attenzione particolare alle questioni ambientali. Grazie a una rete globale di oltre 280 giornalisti e 100 partner mediatici in più di 100 Paesi, l’ICIJ è in grado di condurre inchieste che nessuna redazione, da sola, potrebbe realizzare, specialmente in un contesto di minacce crescenti contro i giornalisti e l’informazione indipendente. Come Funziona l’ICIJ? Il modello di funzionamento dell'ICIJ si basa sulla collaborazione internazionale e l’uso di strumenti avanzati di analisi dei dati. Quando l’ICIJ avvia un’inchiesta, raccoglie e condivide informazioni con i giornalisti membri della sua rete globale, sfruttando database, documenti riservati, leak (fughe di informazioni) e risorse fornite da informatori (whistleblowers). Ogni progetto viene sviluppato in segreto per mesi, a volte anni, prima della pubblicazione. I giornalisti che partecipano a un'inchiesta sono chiamati a cooperare intensamente, mettendo a disposizione competenze specialistiche, conoscenze locali e capacità di storytelling. Questa sinergia crea un prodotto finale potente, che riesce a illuminare scandali e ingiustizie che altrimenti rimarrebbero nascosti. L’ICIJ utilizza anche tecniche investigative avanzate, tra cui il data mining, l'analisi di migliaia di documenti e lo sviluppo di sistemi informatici che permettono di tracciare collegamenti tra persone, aziende e governi. Inoltre, l’ICIJ si basa sul principio della trasparenza, non solo nel diffondere le sue inchieste, ma anche nell’assicurare che il suo lavoro sia accessibile al pubblico e ai media indipendenti. Le Inchieste dell’ICIJ sull’Ambiente L'ICIJ ha affrontato temi ambientali in diverse inchieste di grande portata. Di seguito, analizziamo alcune delle più rilevanti: Toxic Trade (2019) Una delle indagini più importanti condotte dall'ICIJ sull'ambiente è stata l'inchiesta denominata Toxic Trade, pubblicata nel 2019. Questa inchiesta ha svelato un sistema internazionale in cui grandi quantità di rifiuti tossici provenienti da Paesi sviluppati vengono esportate nei Paesi in via di sviluppo, dove le normative ambientali sono meno stringenti o del tutto inesistenti. L'inchiesta ha evidenziato come la pratica del “dumping” di rifiuti tossici sia diventata una minaccia crescente per la salute umana e per l'ambiente. Attraverso l'analisi di documenti commerciali, database internazionali e l'uso di tecnologie investigative avanzate, l'ICIJ ha tracciato i flussi di rifiuti pericolosi da Europa, Stati Uniti e Giappone verso Paesi come il Sudafrica, l’India e la Malesia. L'inchiesta ha rivelato che, nonostante i trattati internazionali come la Convenzione di Basilea, che mira a limitare il traffico transfrontaliero di rifiuti pericolosi, i controlli sono insufficienti e le aziende riescono a evadere le regolamentazioni grazie a scappatoie legali e corruzione. Toxic Trade ha posto l'accento sulla necessità di una regolamentazione più rigorosa e di una maggiore responsabilità da parte delle nazioni sviluppate, nonché sulla necessità di promuovere l’economia circolare come alternativa sostenibile. Carbon Conundrum (2021) Nel 2021, l'ICIJ ha pubblicato un'altra importante inchiesta ambientale, Carbon Conundrum, che ha esaminato l'efficacia dei sistemi globali di scambio delle emissioni di carbonio. L'indagine ha svelato che molte delle iniziative per la compensazione delle emissioni, promosse da grandi aziende e governi, sono inefficaci o addirittura controproducenti. Uno dei principali problemi evidenziati dall’ICIJ è stato l’abuso del concetto di compensazione delle emissioni, dove le aziende comprano crediti di carbonio da progetti teoricamente sostenibili in altre parti del mondo, mentre continuano a inquinare. In molti casi, questi crediti sono stati associati a progetti di riforestazione che non hanno mai visto la luce o che non hanno portato i benefici promessi. Questa inchiesta ha messo in luce come il sistema dei crediti di carbonio venga sfruttato da aziende e governi per "lavare" la propria immagine senza apportare veri cambiamenti strutturali verso la riduzione delle emissioni di gas serra. Carbon Conundrum ha sollevato seri interrogativi sull'efficacia delle misure globali per il contrasto al cambiamento climatico e ha rafforzato la richiesta di azioni più incisive e trasparenti. The Deforestation Inc. (2023) Un’altra indagine di rilievo è stata pubblicata nel 2023 sotto il titolo di Deforestation Inc.. Questa inchiesta ha smascherato una rete di aziende e intermediari che traggono profitto dalla distruzione delle foreste tropicali, in particolare in America Latina e nel Sud-est asiatico. Il team di giornalisti ha scoperto che multinazionali dell’agroindustria, aziende minerarie e gruppi di costruzioni stanno contribuendo in maniera massiccia alla deforestazione illegale, spesso con la complicità di autorità locali corrotte o indifferenti. Inoltre, l'inchiesta ha svelato come i certificati "green" rilasciati da alcune organizzazioni internazionali siano in realtà solo delle coperture per permettere alle aziende di continuare a devastare le foreste. Deforestation Inc. ha evidenziato come la perdita delle foreste non solo contribuisca al cambiamento climatico, riducendo i “pozzi di assorbimento” di CO₂, ma abbia anche conseguenze devastanti per le comunità indigene e per la biodiversità. L'inchiesta ha portato all’attenzione globale il fallimento delle iniziative internazionali volte a proteggere le foreste e ha sollecitato una maggiore trasparenza nel sistema delle certificazioni ambientali. L’Impatto delle Inchieste dell’ICIJ sull’Ambiente Le inchieste dell'ICIJ non si limitano a fornire dati e informazioni, ma spesso innescano azioni concrete da parte dei governi, delle organizzazioni internazionali e delle aziende. Molte delle rivelazioni dell'ICIJ hanno portato a nuove regolamentazioni, a sanzioni contro le aziende coinvolte e a un maggiore controllo pubblico sulle pratiche dannose per l’ambiente. Ad esempio, dopo la pubblicazione di Toxic Trade, numerosi Paesi hanno rivisto le proprie normative sull’importazione di rifiuti, mentre alcune aziende sono state costrette a ridurre le esportazioni di materiali pericolosi. Carbon Conundrum ha suscitato un dibattito mondiale sull’efficacia del sistema di compensazione delle emissioni, spingendo alcuni governi a rivalutare le proprie politiche sul carbon trading.

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https://www.rmix.it/ - Plastiche e Microplastiche nei Mari: Chi Pulisce, Quando e Come?
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Plastiche e Microplastiche nei Mari: Chi Pulisce, Quando e Come?
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Sappiamo chi le genera, da dove partono e come risolvere il problema. Ma i soldi e la politica fanno sempre la differenzadi Marco ArezioSi è molto parlato, negli anni scorsi, dei rifiuti plastici e delle microplastiche nei mari e negli oceani, tanto che il problema ha impegnato per molto tempo i canali di informazione tradizionali e via web. Si sono mobilitati ambientalisti, aziende che cavalcavano l’onda emotiva della gente con campagne dal vago sapore di greenwashing, studiosi, scienziati, personaggi dello spettacolo, leader religiosi, nutrizionisti, sociologi, veggenti e catastrofici personaggi dell’ultima ora. Da quando sono comparse le isole galleggianti di rifiuti plastici negli oceani, come la Great Pacific Garbage Pacth, il mondo si è attivato per capire il fenomeno, da dove nascesse, come si formavano queste isole e come si sarebbe potuto intervenire per ripulire gli oceani e interrompere le nuove formazioni di rifiuti. Durante questo ciclo di attenzione mediatico-scientifico, è emerso anche il fenomeno, più subdolo, delle microplastiche, frazioni di prodotto inferiori a 5 mm., che sono spesso scambiate dai pesci per cibo, rientrando pericolosamente nella catena alimentare anche umana. Da dove vengono i rifiuti plastici che troviamo nei mari e negli oceani? Secondo studi recenti ogni anno l’uomo scarica nei mari circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, il che significa oltre 250 Kg. al secondo, creando una presenza di circa 5.000 miliardi di pezzi, di varie dimensioni, nell’ecosistema marino. Le macro plastiche, cioè rifiuti di dimensioni come una bottiglia di acqua, provengono principalmente dalle azioni deliberate dell’uomo di scaricare, attraverso i fiumi, i rifiuti domestici o quelli che provengono dalle aziende di riciclo poste in paesi poco sviluppati, dove l’attenzione per l’ambiente e la legislazione non punitiva, in materia ambientale, è inesistente o lassista, permettendo o tollerando questi comportamenti. Per quanto riguarda le microplastiche la loro origine si può far risalire a tre fattori principali, la decomposizione delle macro plastiche già presenti in mare sotto l’azione del sole e dell’acqua, i rifiuti del settore tessile e della cosmetica. Inoltre le microplastiche possono provenire anche dagli scarichi di paesi industrializzati, in cui le normative ambientali non hanno ancora risolto il problema della captazione e dell’eliminazione delle particelle più piccole di plastica. Come risolvere tecnicamente il problema Evidentemente ci sono due fattori temporali che devono essere presi inconsiderazione quando si parla di operare per trovare le giuste soluzioni da applicare. In primo luogo bisogna intervenire a monte, cioè fermare lo scarico dei rifiuti plastici nei fiumi, come fossero una fogna legalizzata, aiutando i paesi meno sviluppati a dotarsi di normative ambientali severe e soprattutto a farle rispettare, evitando che fenomeni corruttivi ne decapitino l’efficacia. Secondo, è necessario intercettare i rifiuti plastici prima che raggiungano il mare, utilizzando le reti di contenimento dei rifiuti in prossimità di restringimenti, anse o alla foce dei fiumi. Ogni soluzione di intercettazione dei rifiuti plastici galleggianti deve essere customizzata in base alle esigenze locali, quali il traffico dei natanti, la vita dei pesci, le correnti e via dicendo. Esistono poi delle piccole imbarcazioni dotate di sistemi per raccogliere i rifiuti in superficie, che percorrono i tratti di fiume dove maggiore è la presenza dei rifiuti, così da aiutare e sostenere il lavoro delle reti. Terzo riguarda le isole galleggianti, compito per assurdo, teoricamente più semplice, in quanto esiste un’area delimitata e circoscritta in cui sarebbe possibile raccogliere la plastica galleggiante, ma, di contro, le dimensioni di queste isole sono così estese che il lavoro è sicuramente problematico ed impegnativo. L’unione delle tre attività, contrasto all’immissione nei fiumi di nuove quantità di rifiuti plastici galleggianti, migliori sistemi di filtraggio degli scarichi civili ed industriali per intercettare le microplastiche e, infine, un’azione internazionale, coordinata e continuativa, per pulire i rifiuti presenti nei mari e negli oceani, porterebbe a grandi risultati per la salute dei mari e degli oceani. Chi deve farlo e chi deve finanziarlo Questo tema è stato di proposito lasciato per ultimo, in quanto, come sempre, quando c’è di mezzo la politica e il denaro, diventa difficile trovare azioni condivise, addirittura a volte non si riesce nemmeno ad affrontare il problema ai tavoli internazionali. Credo che si debba creare un nuovo approccio alla visione dei deficit ambientali, vedere la terra come un ambiente condiviso, considerando che l’azione di un paese può influenzare negativamente la vita di tutti, come lo è, in buona parte, quello di scaricare a monte, nei fiumi, i rifiuti che poi, vanno ad interessare gli oceani e i mari in tutto il mondo. Un problema sovranazionale va gestito da un consesso di paesi alleati, che si uniscono per trovare soluzioni e finanziamenti condivisi, che abbiano l’autorità per prendere delle decisione per il bene di tutti ed abbiamo anche gli strumenti per farle rispettare. Ma, in primis, ci vuole la volontà politica per farlo, non bastano le menti, le tecnologie e il denaro se manca la volontà e la lungimiranza di un consesso politico internazionale. Soldi e potere fin dai tempi bui della storia dell'uomo hanno governato le menti degli uomini, ma oggi, se non operiamo quello scatto che ci possa garantire la sopravvivenza in armonia con l’ambiente, non ci sarà più motivo di parlarne e di agire. Ah, dimenticavo, non è eliminando la produzione di plastica o credendo ai proclami di correnti di pensiero come quella della “Plastic free” che si risolvono i problemi..

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https://www.rmix.it/ - Inquinamento atmosferico e demenza: come il particolato influisce sul cervello e aumenta il rischio di Alzheimer
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Inquinamento atmosferico e demenza: come il particolato influisce sul cervello e aumenta il rischio di Alzheimer
Ambiente

Analizziamo la correlazione tra l’inquinamento atmosferico e le malattie neurodegenerativedi Marco ArezioNegli ultimi decenni, l'inquinamento atmosferico è emerso come una delle principali minacce alla salute pubblica. Se inizialmente l’attenzione della ricerca scientifica si è concentrata sugli effetti respiratori e cardiovascolari, oggi cresce la consapevolezza che l’inquinamento possa avere impatti significativi anche sul cervello. Numerosi studi hanno evidenziato una correlazione tra l’esposizione a lungo termine agli inquinanti atmosferici e l’aumento del rischio di malattie neurodegenerative, tra cui la demenza e l'Alzheimer. Tra i principali responsabili di questi effetti troviamo il particolato atmosferico (PM), in particolare le frazioni più sottili come il PM₂.₅ e il PM₀.₁, che possono penetrare in profondità nell’organismo, attraversando la barriera emato-encefalica e provocando danni al tessuto nervoso. Questo articolo esplorerà la storia della ricerca scientifica su questo tema, i meccanismi biologici coinvolti e le possibili implicazioni per la salute pubblica. Storia degli studi sull’inquinamento atmosferico e le malattie neurodegenerative L’ipotesi che l’inquinamento atmosferico potesse influire sulla salute cerebrale è relativamente recente. Per molti anni, gli effetti negativi della qualità dell’aria sono stati studiati principalmente in relazione alle malattie respiratorie e cardiovascolari, mentre le conseguenze neurologiche sono emerse solo a partire dagli anni ’90. Uno dei primi segnali che l’inquinamento potesse avere ripercussioni sul sistema nervoso arrivò dal Harvard Six Cities Study (1993), che dimostrò un aumento della mortalità nelle aree più inquinate, senza però indagare specificamente gli effetti sul cervello. Tuttavia, il dato suscitò interesse tra i ricercatori, che iniziarono a chiedersi se l'inquinamento potesse influenzare anche il sistema nervoso centrale. Negli anni 2000, studi pionieristici condotti in Messico fornirono prove più concrete. Lilian Calderón-Garcidueñas, neuroscienziata e patologa, analizzò i cervelli di giovani adulti e bambini residenti a Città del Messico, trovando segni di neuroinfiammazione e accumuli di beta-amiloide e tau iperfosforilata, due biomarcatori tipici dell'Alzheimer. Questa scoperta fu rivoluzionaria: suggeriva che l’esposizione prolungata a livelli elevati di inquinamento atmosferico potesse accelerare i processi neurodegenerativi già in età precoce. Da allora, il legame tra inquinamento e declino cognitivo è stato oggetto di numerose ricerche su larga scala. Tra gli studi più influenti: Women’s Health Initiative Memory Study (2015): dimostrò che le donne anziane esposte a livelli elevati di PM₂.₅ avevano un rischio maggiore di sviluppare demenza. Studio dell’Università della California (2017): analizzò i dati di oltre 3.600 individui, rilevando che gli anziani esposti all’inquinamento mostrano un volume cerebrale ridotto, segno di degenerazione neuronale. Studio britannico del 2020: evidenziò un aumento del 40% del rischio di Alzheimer nelle persone esposte a concentrazioni elevate di PM₂.₅ e NO₂. Negli ultimi anni, studi più sofisticati hanno dimostrato che il particolato ultrafine (PM₀.₁) può attraversare direttamente la barriera emato-encefalica, accumulandosi nel cervello e causando infiammazione cronica. Inoltre, alcune ricerche suggeriscono che l’inquinamento atmosferico possa alterare il neurosviluppo già in fase fetale, aumentando il rischio di deficit cognitivi in età adulta. Meccanismi biologici: come l'inquinamento atmosferico danneggia il cervello L’associazione tra esposizione agli inquinanti atmosferici e il rischio di sviluppare malattie neurodegenerative è sostenuta da diversi meccanismi biologici: Infiammazione sistemica e neuroinfiammazione: l’inalazione di particolato fine scatena una risposta infiammatoria che, attraverso il rilascio di citochine pro-infiammatorie (come IL-6 e TNF-α), può raggiungere il cervello e attivare la microglia, le cellule immunitarie cerebrali. Questo stato di neuroinfiammazione è considerato un fattore chiave nella progressione dell'Alzheimer. Stress ossidativo: le particelle ultrafini contengono metalli pesanti e composti organici che aumentano la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), causando danni ossidativi a cellule e neuroni. Compromissione della barriera emato-encefalica: il PM₂.₅ e il PM₀.₁ possono alterare la struttura della barriera emato-encefalica, permettendo il passaggio di tossine e agenti infiammatori nel sistema nervoso centrale. Accumulo di proteine neurotossiche: studi recenti hanno suggerito che l’esposizione agli inquinanti atmosferici possa favorire l’accumulo di placche di beta-amiloide e tau iperfosforilata, accelerando la degenerazione cerebrale. Implicazioni per la salute pubblica e strategie di intervento Le prove scientifiche suggeriscono che l’inquinamento atmosferico sia un importante fattore di rischio per le malattie neurodegenerative. Di conseguenza, è fondamentale adottare misure di prevenzione e mitigazione: Riduzione delle emissioni inquinanti: promuovere politiche ambientali per ridurre il traffico veicolare, incentivare l’uso di energie rinnovabili e limitare le emissioni industriali. Miglioramento della qualità dell’aria urbana: sviluppare infrastrutture verdi, come parchi e boschi urbani, che possano ridurre l’impatto dell’inquinamento atmosferico. Prevenzione individuale: utilizzare dispositivi di filtraggio dell’aria negli ambienti chiusi, evitare le aree ad alto traffico e promuovere stili di vita salutari per contrastare lo stress ossidativo. Monitoraggio e ricerca: intensificare la sorveglianza della qualità dell’aria e finanziare studi di lungo termine per comprendere meglio l’impatto dell’inquinamento sulla salute cerebrale. Conclusioni Le crescenti evidenze scientifiche dimostrano che l’inquinamento atmosferico non è solo un problema respiratorio o cardiovascolare, ma rappresenta una minaccia concreta per la salute cerebrale. Il particolato fine e ultrafine ha la capacità di attraversare le barriere biologiche e innescare processi infiammatori e degenerativi che aumentano il rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e la demenza. Alla luce di questi dati, è cruciale adottare politiche di prevenzione per ridurre l’inquinamento atmosferico e proteggere la salute pubblica. La ricerca deve continuare a esplorare il legame tra qualità dell’aria e declino cognitivo, con l’obiettivo di sviluppare strategie efficaci per ridurre l’incidenza delle malattie neurodegenerative nei decenni a venire.© Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - La Giornata Mondiale dell’Acqua ci Ricorda una Crisi mai Risolta
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare La Giornata Mondiale dell’Acqua ci Ricorda una Crisi mai Risolta
Ambiente

Oltre 3 miliardi di persone a rischio per la qualità dell'acqua e 2,3 miliardi vivono in aree sotto stress idricodi Marco ArezioI dati impietosi che le Nazioni Unite, in occasione della giornata mondiale dell'acqua,  ci raccontano sulla difficoltà di avere una quantità di acqua sufficiente per ogni persona nel mondo, una qualità che sia corretta e non crei malattie e un equilibrio di consumo delle risorse ambientali, ci fanno molto riflettere. Infatti, a livello globale, oltre 3 miliardi di persone sono a rischio di malattie perché la qualità dell'acqua dei loro fiumi, laghi e delle acque sotterranee è insicura, a causa della mancanza di controlli accurati.Nel frattempo, un quinto dei bacini idrografici del mondo sta subendo fluttuazioni drammatiche nella disponibilità di acqua e 2,3 miliardi di persone vivono in paesi classificati come "stressati dall'acqua", di cui 721 milioni in aree in cui la situazione idrica è "critica", secondo recenti ricerca condotta dal Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) e dai suoi partner. “Il nostro pianeta sta affrontando una triplice crisi di cambiamento climatico, che si compone in perdita di biodiversità, inquinamento e spreco. Queste crisi stanno mettendo a dura prova gli oceani, i fiumi, i mari e i laghi”, ha affermato Inger Andersen, Direttore Esecutivo dell'UNEP. "La raccolta di dati regolari, completi e aggiornati è fondamentale per gestire le nostre risorse idriche in modo più sostenibile e garantire l'accesso all'acqua potabile per tutti". Storicamente ci sono sempre stati pochi dati e pochi studi sullo stato globale degli ecosistemi di acqua dolce. Per colmare il divario, l'UNEP ha utilizzato le tecnologie di osservazione della Terra per monitorare, per lunghi periodi di tempo, la storia attraverso la quale gli ecosistemi di acqua dolce stanno cambiando. I ricercatori hanno esaminato più di 75.000 corpi idrici in 89 paesi e hanno scoperto che oltre il 40% era gravemente inquinato. I numeri, presentati il 18 marzo in una riunione di alto livello delle Nazioni Unite sugli obiettivi relativi all'acqua dell'Agenda 2030, suggeriscono che il mondo è in ritardo sulla tabella di marcia per la fornitura di acqua potabile sicura a tutta l'umanità. I dati dell'UNEP indicano che il mondo non è sulla buona strada per arrivare ad una gestione idrica sostenibile entro il 2030,  infatti gli sforzi dovrebbero raddoppiare nei prossimi nove anni per raggiungere l'Obiettivo di Sviluppo Sostenibile (SDG) 6, che richiede "la disponibilità e la gestione sostenibile dell'acqua e igiene per tutti ". Coordinato da UN-Water, l'UNEP, insieme ad altre sette agenzie delle Nazioni Unite, fa parte dell'Integrated Monitoring Initiative, un programma globale progettato per supportare i paesi attraverso il monitoraggio e la verifica dei progressi verso gli obiettivi SDG 6. L'UNEP è responsabile di tre degli 11 indicatori: qualità dell'acqua ambientale, gestione integrata delle risorse idriche ed ecosistemi di acqua dolce. I dati raccolti dall'UNEP vengono analizzati per monitorare come le pressioni ambientali, come il cambiamento climatico, l'urbanizzazione e i cambiamenti nell'uso del suolo, tra gli altri, influiscono sulle risorse di acqua dolce del mondo. Andersen ha affermato che le informazioni aiuterebbero a favorire un processo decisionale ambientale ai massimi livelli. Cosa si deve fare per accelerare il processo? Per velocizzare gli interventi necessari, nel 2020 è stato lanciato l'Obiettivo di sviluppo sostenibile 6 Global Acceleration Framework, che mira a mobilitare l'azione tra i governi, la società civile, il settore privato e le Nazioni Unite per allineare gli sforzi, ottimizzare i finanziamenti e migliorare la capacità e governance per gestire le risorse idriche. Ogni anno, le Nazioni Unite celebrano il 22 marzo come Giornata mondiale dell'acqua, per aumentare la consapevolezza del ruolo fondamentale di questa nella sicurezza alimentare, nella produzione di energia, nell'industria e in altri aspetti dello sviluppo umano, economico e sociale. Quest'anno, il tema della giornata è "valorizzare l'acqua". Si riconosce che una gestione dell'acqua efficace ed equa ha effetti catalitici in tutta l'Agenda 2030.

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https://www.rmix.it/ - Disuguaglianze etniche e socioeconomiche legate all'inquinamento atmosferico negli Stati Uniti: Un'analisi delle disparità ambientali
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Disuguaglianze etniche e socioeconomiche legate all'inquinamento atmosferico negli Stati Uniti: Un'analisi delle disparità ambientali
Ambiente

Come le comunità di minoranze etniche e a basso reddito subiscono l'impatto sproporzionato dell'inquinamento atmosferico e cosa può fare la giustizia ambientale per affrontare questa ingiustiziadi Marco ArezioL'inquinamento atmosferico rappresenta una delle principali sfide ambientali a livello globale, poiché minaccia sia gli ecosistemi sia la salute di milioni di persone. Negli Stati Uniti, le disuguaglianze etniche e socioeconomiche determinano in modo significativo chi è più esposto ai rischi derivanti dall'inquinamento atmosferico. Diversi studi mostrano che le comunità emarginate, spesso costituite da minoranze etniche e persone a basso reddito, affrontano un'esposizione sproporzionata a livelli più elevati di inquinamento. Questo fenomeno solleva una questione cruciale di giustizia ambientale, poiché evidenzia come la disuguaglianza sistemica influisca negativamente sulla salute e sulla qualità della vita delle popolazioni più vulnerabili. Disuguaglianze etniche e socioeconomiche: Il contesto storico Le disparità nell'esposizione all'inquinamento atmosferico negli Stati Uniti affondano le loro radici in una lunga storia di segregazione razziale e disuguaglianza economica. Politiche abitative del passato, come il "redlining", hanno relegato le comunità nere e latine in aree urbane con accesso limitato ai servizi di base e una qualità dell'aria decisamente peggiore rispetto a quella delle comunità bianche più benestanti. Il redlining, una pratica discriminatoria che ha negato prestiti o imposto condizioni svantaggiose in determinate aree, ha portato alla creazione di quartieri segregati, spesso situati vicino a fonti di inquinamento industriale. Queste politiche hanno privato molte famiglie delle opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita e di trasferirsi in zone più salubri. Le disuguaglianze economiche, inoltre, costringono molte persone con redditi bassi a vivere in aree più esposte a rischi ambientali. Queste comunità hanno meno possibilità di influenzare le decisioni politiche locali e spesso non dispongono dei mezzi necessari per opporsi allo sviluppo industriale dannoso nei propri quartieri. Il risultato è un ciclo di vulnerabilità che si perpetua nel tempo, dove chi vive già in condizioni difficili viene ulteriormente penalizzato dalla bassa qualità dell'aria. Impatti dell'inquinamento atmosferico sulla salute L'inquinamento atmosferico è composto da una miscela di sostanze nocive, tra cui particolato fine (PM2.5), ossidi di azoto (NOx) e ozono a livello del suolo. L'esposizione cronica a questi inquinanti è stata associata a numerosi problemi di salute, tra cui malattie respiratorie, cardiovascolari e un rischio aumentato di mortalità precoce. Tuttavia, l'esposizione a questi rischi non è distribuita equamente tra la popolazione. Studi epidemiologici dimostrano che le comunità nere, latine e indigene sono maggiormente vulnerabili agli effetti nocivi dell'inquinamento atmosferico rispetto alle comunità bianche. Uno studio del 2019 pubblicato su PNAS ha rilevato che, mentre le persone nere negli Stati Uniti contribuiscono meno all'inquinamento, subiscono esposizioni a particolato fine significativamente più alte rispetto alla popolazione bianca. Questo evidenzia una profonda ingiustizia ambientale, poiché coloro che meno contribuiscono all'inquinamento sono quelli che ne subiscono maggiormente le conseguenze. Inoltre, le comunità a basso reddito sono particolarmente vulnerabili agli effetti dell'inquinamento a causa della mancanza di accesso a cure mediche di qualità e della maggiore prevalenza di condizioni preesistenti, come l'asma, che possono essere esacerbate dall'inquinamento. Immaginare la vita di un bambino che cresce respirando aria inquinata e lottando con problemi respiratori cronici, senza accesso alle cure di cui avrebbe bisogno, aiuta a comprendere la dura realtà che molte famiglie emarginate devono affrontare quotidianamente. Giustizia ambientale e inquinamento atmosferico Il concetto di giustizia ambientale si è sviluppato per affrontare le disuguaglianze legate all'impatto ambientale sulle comunità più vulnerabili. Ogni individuo, indipendentemente dalla razza, dal reddito o dal luogo in cui vive, ha il diritto a un ambiente sano e a un'aria pulita. Tuttavia, la realtà negli Stati Uniti è che molte comunità emarginate continuano a vivere in prossimità di industrie pesanti, autostrade e discariche, con conseguente esposizione quotidiana a livelli elevati di inquinanti atmosferici. Un esempio emblematico di questa disparità è rappresentato dalla "cintura del cancro" della Louisiana, una regione lungo il fiume Mississippi con un'alta concentrazione di industrie chimiche e petrolchimiche. Le comunità nere che vivono in quest'area sono esposte a livelli preoccupanti di sostanze cancerogene e i tassi di cancro sono significativamente più alti rispetto alla media nazionale. Queste comunità non solo subiscono gli effetti dell'inquinamento, ma spesso dipendono economicamente dalle stesse industrie che compromettono la loro salute, intrappolandole in un ciclo di dipendenza e malattia. Il ruolo delle politiche pubbliche Le politiche pubbliche svolgono un ruolo cruciale nel contrastare le disuguaglianze legate all'inquinamento atmosferico. Tuttavia, le normative ambientali non sempre riescono a proteggere efficacemente le comunità più vulnerabili. Sebbene l'Environmental Protection Agency (EPA) abbia stabilito standard per la qualità dell'aria attraverso il Clean Air Act, l'applicazione di tali standard varia da regione a regione e molte comunità colpite dall'inquinamento non vedono miglioramenti tangibili. Negli ultimi anni, sono emerse nuove iniziative volte a ridurre queste disuguaglianze. L'Environmental Justice for All Act, presentato al Congresso nel 2020, mira a rafforzare la protezione delle comunità emarginate migliorando la partecipazione pubblica nei processi decisionali e aumentando le sanzioni per le violazioni ambientali nelle aree più vulnerabili. Anche il piano Justice40 dell'amministrazione Biden, che prevede di destinare il 40% dei benefici degli investimenti federali in energie pulite e infrastrutture sostenibili alle comunità svantaggiate, rappresenta un passo significativo verso una maggiore equità ambientale. Conclusioni L'inquinamento atmosferico e le disuguaglianze socioeconomiche e razziali sono strettamente intrecciati negli Stati Uniti, con le comunità di minoranze etniche e a basso reddito che subiscono gli impatti più gravi. Questo mette in evidenza la necessità di un impegno costante per promuovere la giustizia ambientale, non solo per migliorare la qualità dell'aria, ma anche per sanare le ferite storiche causate dalle disuguaglianze che hanno lasciato molte comunità vulnerabili. Affrontare queste sfide richiede politiche pubbliche che promuovano uno sviluppo equo e sostenibile, garantendo che nessuna comunità sia lasciata indietro. Solo attraverso un approccio inclusivo e giusto potremo costruire un futuro in cui ogni persona, indipendentemente dalla sua razza o dal suo reddito, possa vivere in un ambiente sano e sicuro. La giustizia ambientale non è solo una questione di salute, ma anche di dignità umana e un passo fondamentale verso una società più equa e sostenibile per tutti.© Riproduzione Vietata

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https://www.rmix.it/ - Dalla CO2 all’ Etilene: Rivoluzione Verde con i Catalizzatori di Rame
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Dalla CO2 all’ Etilene: Rivoluzione Verde con i Catalizzatori di Rame
Ambiente

Scopri Come la Tecnologia Avanzata Trasforma l'Anidride Carbonica in Risorse Sostenibili per il Futuro di Marco ArezioIl processo di trasformazione dell'anidride carbonica (CO2) atmosferica in etilene mediante l'uso di catalizzatori in rame rappresenta un'avanzata significativa nella chimica sostenibile e nell'economia circolare. Questa tecnologia non solo promette di ridurre i livelli di CO2, un potente gas serra, ma offre anche un metodo per produrre etilene, un importante composto chimico utilizzato in varie applicazioni industriali, in modo più sostenibile. La conversione tecnica dell'anidride carbonica (CO2) in etilene avviene attraverso un processo elettrochimico che utilizza catalizzatori a base di rame. Questo processo si inserisce nel più ampio contesto della decarbonizzazione, offrendo una strategia per ridurre le emissioni di CO2, trasformandole in prodotti chimici utili, come l'etilene, un idrocarburo utilizzato in molte applicazioni industriali. Processo Elettrochimico di Riduzione della CO2 Il processo di riduzione della CO2 in etilene avviene in un elettrolizzatore che contiene un elettrodo positivo (anodo) e uno negativo (catodo), immersi in una soluzione elettrolitica che contiene ioni per condurre l'elettricità. La CO2 è disciolta in questa soluzione e, quando viene applicata una tensione elettrica, avviene la riduzione della CO2 all'elettrodo negativo (catodo), mentre l'ossigeno si evolve all'anodo. Riduzione della CO2: All'elettrodo di rame (catodo), la CO2 disciolta reagisce con elettroni per formare vari prodotti, tra cui l'etilene, secondo la reazione semplificata:  CO2+4H++4e−→C2H4+2H2O Questo processo è facilitato dalla superficie del catalizzatore di rame che assorbe le molecole di CO2 e le riduce a etilene. Ossigeno: All'anodo avviene la reazione di ossidazione dell'acqua, che genera ossigeno e ioni idrogeno (protoni) che contribuiscono al ciclo dell'elettrolita: 2H2O→O2+4H++4e− Ruolo dei Catalizzatori in Rame I catalizzatori in rame sono cruciali per la selettività del processo verso l'etilene. La superficie del rame può essere ingegnerizzata a livello nanoscopico per aumentare la sua efficacia e selettività verso la produzione di etilene. La modifica della superficie può includere l'aggiunta di promotori, la creazione di leghe con altri metalli, o l'introduzione di nanoparticelle o nanostrutture specifiche che cambiano le proprietà elettrocatalitiche del rame. Come è Fatto un Catalizzatore di Rame Un catalizzatore di rame è composto principalmente da rame metallico, che può essere utilizzato in diverse forme e strutture per catalizzare specifiche reazioni chimiche, tra cui la riduzione dell'anidride carbonica (CO2) in composti chimici utili come l'etilene. La preparazione e la strutturazione di questi catalizzatori sono cruciali per la loro efficienza e selettività nelle reazioni. Ecco come possono essere fatti e strutturati i catalizzatori di rame: 1. Forme Fisiche Nanoparticelle: Il rame può essere sintetizzato in nanoparticelle, che presentano una grande area superficiale rispetto al volume, aumentando così l'attività catalitica per la riduzione della CO2. Film sottile: Il rame può essere depositato come film sottile su supporti conduttivi attraverso tecniche come la deposizione fisica da vapore (PVD) o la deposizione chimica da vapore (CVD). Schiume o reti metalliche: Queste strutture porose di rame offrono un'elevata superficie per la reazione e possono essere utilizzate come elettrodi in processi elettrochimici. 2. Trattamenti Superficiali e Leghe Trattamenti superficiali: La superficie dei catalizzatori di rame può essere modificata chimicamente o fisicamente per migliorare la selettività verso specifici prodotti, come l'etilene. Leghe con altri metalli: Il rame può essere combinato con altri metalli (come l'oro, l'argento o lo zinco) per formare leghe che modificano le proprietà catalitiche del rame, migliorando l'efficienza e la selettività. 3. Supporti e Promotori Supporti: I catalizzatori di rame possono essere supportati su vari materiali (come carbonio, ossidi metallici, o polimeri) per migliorare la dispersione del catalizzatore e la stabilità termica. Promotori: Sostanze chimiche aggiuntive possono essere aggiunte per promuovere specifiche vie reattive o per stabilizzare il catalizzatore, migliorando ulteriormente la selettività e l'attività. 4. Sintesi e Caratterizzazione Sintesi: La preparazione di catalizzatori di rame può avvenire attraverso metodi chimici, come la precipitazione, la riduzione chimica, o metodi elettrochimici. Questi metodi consentono un controllo preciso sulle dimensioni, la forma e la composizione del catalizzatore. Caratterizzazione: Dopo la sintesi, i catalizzatori di rame sono caratterizzati usando tecniche come la microscopia elettronica (SEM, TEM), la spettroscopia (XPS, FTIR), e la diffrazione dei raggi X (XRD) per analizzare la struttura, la composizione e la morfologia. Questi catalizzatori sono studiati e ottimizzati per specifiche reazioni, come la riduzione elettrochimica della CO2, dove l'efficacia del catalizzatore di rame dipende fortemente dalla sua struttura, composizione, e dalla natura del processo catalitico. Utilizzo per la Decarbonizzazione L'utilizzo di questo processo per la decarbonizzazione si basa sulla capacità di trasformare la CO2, un sottoprodotto industriale e un potente gas serra, in un prodotto chimico prezioso come l'etilene. Ciò offre un doppio vantaggio: ridurre le emissioni di CO2 e produrre elementi chimici di valore da una fonte sostenibile. Per massimizzare l'impatto sulla decarbonizzazione, è essenziale che l'energia utilizzata per l'elettrolisi provenga da fonti rinnovabili, come il solare o l'eolico, per minimizzare l'impronta di carbonio complessiva del processo. Vantaggi Ambientali ed Economici La conversione della CO2 in etilene non solo aiuta a mitigare il cambiamento climatico riducendo la concentrazione di CO2 nell'atmosfera, ma offre anche benefici economici. L'etilene è una materia prima chiave per la produzione di plastica, solventi, e altri prodotti chimici. Attualmente, l'etilene è prodotto principalmente dal petrolio e dal gas naturale, processi che rilasciano ulteriori gas serra. Utilizzando la CO2 come materia prima, il processo riduce la dipendenza dalle fonti fossili e si muove verso un'economia più circolare e sostenibile. Problematiche e Prospettive Future Nonostante i notevoli progressi, ci sono ancora problematiche da superare prima che la tecnologia possa essere implementata su larga scala. Queste includono l'aumento dell'efficienza energetica del processo, la riduzione dei costi dei catalizzatori e dell'infrastruttura necessaria, e l'integrazione di fonti di energia rinnovabile per alimentare l'elettrolisi in modo sostenibile. La ricerca continua nel campo della catalisi e dell'ingegneria dei processi è fondamentale per superare queste sfide. Conclusione La conversione dell'anidride carbonica atmosferica in etilene utilizzando catalizzatori in rame rappresenta una frontiera promettente per l'industria chimica sostenibile. Questo approccio non solo ha il potenziale per ridurre l'impatto ambientale della produzione chimica ma anche per contribuire significativamente alla lotta contro il cambiamento climatico. Con ulteriori ricerche e sviluppo, questa tecnologia potrebbe diventare un pilastro dell'economia circolare, offrendo una soluzione efficace per trasformare i rifiuti di CO2 in risorse preziose.

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https://www.rmix.it/ - Cosa è la Depavimentazione Urbana e come Influisce sulle Bolle di Calore
rMIX: Il Portale del Riciclo nell'Economia Circolare Cosa è la Depavimentazione Urbana e come Influisce sulle Bolle di Calore
Ambiente

Il problema delle bolle di calore nelle città fortemente cementificate, ha bisogno di risposte tecnico-politiche efficacidi Marco ArezioLe estati, sempre più roventi, stanno portando, soprattutto nelle città, un livello di temperatura molto elevato e distribuito, non solo nelle ore diurne, ma anche durante la notte, rendendo invivibile la vita ai cittadini.Urbanistica e calore urbano L’urbanizzazione delle città storiche, ha visto la crescita di edifici abitativi e attività commerciali in nuclei sempre più stretti tra loro, erodendo il tessuto verde per far posto alla cementificazione continuativa. Oltre alla costruzione di edifici, anche di grandi dimensioni e molto vicini tra loro, se addirittura in una sorta di continuità edificativa, si è provveduto a pavimentare le strade, i parcheggi e le arre di collegamento tra un complesso e l’altro, con elementi impermeabili e assorbenti il calore come l’asfalto. In un contesto di cambiamento climatico, dove le ondate di calore colpiscono duro i centri abitati, la tipologia urbanistica e costruttiva odierna è del tutto inadeguata ad attenuare i fenomeni estremi. Strade ed edifici si caricano di calore durante il giorno, per poi restituirlo dalle ore serali in tutta la sua veemenza, impedendo una tregua dalla calura al calar del sole. La progettazione di soluzioni a queste problematiche, vede la necessità di ridurre le aree impermeabili che trattengono e rilasciano il calore, come da depavimentazione da asfalto o coperture stradali continue, per aumentare le aree verdi, le superfici drenanti al fine di mitigare l’effetto dell’accumulo di calore. Cosa è la depavimentazione urbana La depavimentazione urbana è un concetto che riguarda la rimozione di pavimentazioni in aree urbane per scopi specifici. L'obiettivo principale di questa pratica è quello di riqualificare spazi urbani per migliorare la qualità della vita delle persone, aumentare la sostenibilità ambientale e creare aree più piacevoli e funzionali per la comunità. Questo processo può riguardare diverse azioni: Rimozione di pavimentazioni asfaltate o cementate, come, strade, parcheggi e piazze che sono coperti da asfalto o cemento. Il lavoro comporta la rimozione di queste superfici dure e impermeabili, restituendo alla zona uno stato più naturale e permeabile.L’asportazione di queste sovrastrutture può essere utilizzata per creare parchi, giardini e spazi verdi in aree precedentemente pavimentate. Questi spazi possono favorire la biodiversità, migliorare la qualità dell'aria e fornire un ambiente più salutare per gli abitanti della città.La rimozione di pavimentazioni impermeabili può contribuire a prevenire allagamenti e migliorare il drenaggio delle acque piovane, permettendo loro di essere assorbite dal suolo e ricaricare le falde acquifere. Inoltre, le superfici impermeabili assorbono e trattengono il calore, contribuendo all'effetto noto come "isola di calore urbana". Rimuovendo alcune pavimentazioni continue e d impermeabili, è possibile migliorare il comfort termico delle zone urbane. Come risolvere il problema delle isole di calore urbane Il problema delle isole di calore urbane può essere affrontato adottando diverse strategie, tra cui la depavimentazione urbana svolge un ruolo importante. Ci sono diversi aspetti da affrontare per favorire questo fenomeno: Rimuovere parti di pavimentazione e sostituirle con spazi verdi, come parchi, giardini e aree alberate, può contribuire a ridurre l'accumulo di calore nelle città. Le superfici verdi assorbono meno calore rispetto al cemento e all'asfalto, fornendo un ambiente più fresco. Utilizzare coperture vegetali su edifici (tetti verdi) o materiali a bassa capacità termica (tetti freschi) può ridurre l'assorbimento di calore e aiutare a raffreddare gli edifici e le aree circostanti. Promuovere la mobilità sostenibile riducendo il traffico veicolare e creando aree pedonali e piste ciclabili può diminuire le emissioni di calore generate dai veicoli e ridurre l'effetto dell'isola di calore. Le decisioni di pianificazione urbana possono influenzare l'intensità dell'isola di calore. Ad esempio, aumentare la densità di edifici e ridurre gli spazi aperti può aumentare l'effetto dell'isola di calore, mentre una pianificazione oculata può promuovere una migliore circolazione dell'aria e una maggiore presenza di aree verdi. Utilizzare materiali più chiari e riflettenti per pavimentazioni e coperture può aiutare a ridurre l'assorbimento di calore. Allo stesso tempo, promuovere superfici permeabili può facilitare il drenaggio delle acque piovane e ridurre il surriscaldamento. Inoltre, alcune città stanno sperimentando sistemi di raffreddamento urbano, come l'utilizzo di acqua riciclata o impianti di raffreddamento evaporativo per ridurre le temperature nelle zone densamente popolate. Infine, è possibile proteggere e ampliare le aree naturali circostanti, contribuendo a mantenere un microclima più favorevole e ridurre l'impatto dell'urbanizzazione sul riscaldamento. Perché le pavimentazioni impermeabili assorbono e rilasciano il calore più di quelle permeabili Le pavimentazioni impermeabili e permeabili influenzano l'effetto delle isole di calore urbano in modo significativo. Vediamo come funzionano e quali sono le differenze tra queste due tipologie di pavimentazione: Pavimentazioni Impermeabili Le pavimentazioni impermeabili, come l'asfalto e il cemento, hanno una bassa capacità di assorbire l'acqua. Quando il sole colpisce queste superfici, esse riscaldano notevolmente, assorbendo il calore e accumulandolo. Di conseguenza, durante le giornate calde, queste superfici possono diventare estremamente calde, contribuendo all'effetto di riscaldamento dell'isola di calore urbano. Inoltre, l'acqua piovana scorre rapidamente sulle pavimentazioni impermeabili, accumulando in modo limitato e creando problemi di allagamento e scarico nelle città. Pavimentazioni Permeabili Le pavimentazioni permeabili, come il pavimento in porfido, mattoni porosi, calcestruzzo poroso, i grigliati in plastica e cemento e molti altri prodotti, consentono all'acqua di penetrare attraverso la loro superficie e raggiungere il suolo sottostante. Questo tipo di pavimentazione ha una capacità di drenaggio superiore rispetto alle pavimentazioni impermeabili, consentendo all'acqua piovana di essere assorbita nel terreno, ricaricando le falde acquifere e riducendo il rischio di allagamenti. Inoltre, le pavimentazioni permeabili riflettono meno calore rispetto a quelle impermeabili, poiché l'acqua presente sulla superficie evapora e raffredda l'ambiente circostante. Riduzione del Calore Urbano Le pavimentazioni impermeabili contribuiscono all'effetto di riscaldamento delle isole di calore urbano, mentre le pavimentazioni permeabili possono aiutare a ridurlo. La presenza di pavimentazioni permeabili aumenta la quantità di evaporazione dell'acqua e favorisce una migliore circolazione dell'aria, aiutando a raffreddare l'ambiente circostante. Inoltre, le aree verdi, come i parchi e i giardini, che spesso includono pavimentazioni permeabili, contribuiscono ulteriormente a ridurre il calore urbano attraverso il processo di traspirazione delle piante e l'ombreggiamento. Quali sono i progetti più importanti di depavimentazione urbana Non esistono ancora molti progetti di depavimentazione urbana su vasta scala, ma ci sono stati alcuni progetti pilota e iniziative locali interessanti. Ecco alcuni esempi di progetti di depavimentazione urbana significativi: Progetto Depave Portland, Oregon, USA Il progetto Depave si concentra sulla rimozione di pavimentazioni impermeabili per creare spazi verdi nelle aree urbane di Portland. L'iniziativa mira a creare parchi e giardini, nonché a prevenire inondazioni e proteggere l'ecosistema locale. Progetto Sponge City – Cina Le Sponge Cities sono un progetto sperimentato in diverse città cinesi, come Shanghai e Chengdu, per affrontare problemi di inondazioni e gestione delle acque. Questi progetti incorporano la depavimentazione urbana attraverso l'uso di pavimentazioni permeabili, aree verdi e sistemi di raccolta delle acque piovane per prevenire allagamenti e migliorare la gestione delle risorse idriche. Progetto Green Infrastructure - Città Europee Diverse città europee stanno implementando progetti di green infrastructure che includono la depavimentazione urbana. Ad esempio, Copenaghen in Danimarca ha creato piste ciclabili, aree verdi e parchi su ex parcheggi e strade asfaltate per promuovere uno stile di vita più sostenibile e ridurre l'impatto delle isole di calore. Progetto Raining Street - Tokyo, Giappone A Tokyo, è stato lanciato il progetto "Raining Street" che mira a promuovere l'uso dell'acqua piovana per scopi diversi, come il raffreddamento urbano e l'irrigazione. Ciò include la depavimentazione di alcune aree per consentire il drenaggio dell'acqua piovana e il suo riutilizzo. Progetto Urban Heat Islands - Melbourne, Australia Melbourne ha avviato diverse iniziative per affrontare gli effetti delle isole di calore urbane, tra cui la depavimentazione per creare spazi verdi e piste ciclabili e l'utilizzo di materiali a bassa capacità termica per le coperture degli edifici. Progetto Growsmart - Boston, Massachusetts, USA Growsmart è un programma di depavimentazione urbana avviato a Boston per trasformare ex parcheggi e spazi pavimentati in parchi e aree verdi pubbliche. L'iniziativa mira a migliorare la qualità della vita, la salute e la sostenibilità della città.

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